lunedì 18 luglio 2011

CAMBOGIA - LARA CROFT NON ERA COREANA


IN FUGA DAL BRANCO, TRA LE ROVINE DI ANGKOR. DEPISTANDO I GRUPPI COREANI, MA NON SOLO. ALLA RICERCA DEL SILENZIO E DELLA MAGIA, NEL SITO ARCHEOLOGICO PIÙ BELLO DEL MONDO.

Giocare al fotografo, ad Angkor, non è facile. Dietro l’angolo, oltre il pilastro, sotto l’arco buio, si nasconde quasi sempre il coreano (nel 27% dei casi, secondo le statistiche ufficiali relative al flusso turistico). In alternativa, il giapponese, il cinese, il vietnamita. L’italiano, se c’è - di solito in piccoli gruppi -, si sente da lontano, è facile fuggirne. Immortalare un tempio, una radice gigante che ha fagocitato qualche struttura architettonica, un’apsara - versione indù di danzatrice-geisha, trasportata nell’immaginario khmer - priva di contorno umano, vociante e alieno, è una specie di missione impossibile. Bisogna essere molto veloci con l’indice, a schiacciare il pulsante per il click, se vogliamo fotografare templi senza tracce di esseri viventi, sudanti, ululanti. Fin da piccolino sognavo di visitare le rovine di Angkor, e la Lara Croft di qualche anno fa, interpretata dalle labbrone XXL di Angelina Jolie, è stata la calamita che ha fatto traboccare il vaso, se mi è permesso storpiare una frase strafatta. Da allora ci sono finito tre volte, e ci tornerei altre tre. Il luogo è così vasto e ricco di angolini tutti da scoprire che la visita può non finire mai. Ogni ora del giorno offre sfumature diverse di luci e ombre, tanto da rendere ogni rovina un luogo camaleontico, con la pelle in continua mutazione, sempre da scoprire. E ogni volta che incontro il mio cuginetto, archeologo in pantofole parcheggiato in Romagna a scavare coriandoli medievali con poca anima, paternalisticamente mi viene istintivo rompergli le scatole. “Perché diavolo non insegui qualche progetto internazionale, governativo, universitario, o, al peggio, di tasca tua, e te ne vai a vedere, toccare, scavare un sito vero? Il Sito, cioè.” “Cugino - mi risponde sempre con aria tra il frustrato e l’assonnato -, quella è roba per imboscati, per figli di deputati. Non per laureati proletari come me. Italia, you know.” In effetti, oggigiorno, a laurearsi in archeologia ci vuole un’infinita passione per il virtuale e poco o zero attaccamento alla pecunia, all’idea che con il proprio lavoro si possano pagare le bollette che il postino insiste a recapitarti. Passione, la chiamavano in tempi più innocenti.







Fai-da-te o fai per me?
Sbarcati a Siem Reap, la cittadina-base a 7 km dagli scavi, l’imbarazzo della scelta sta tutto nelle riserve del nostro portafogli, quelle che gli americani chiamano budget. Chi ha le ragnatele deve comunque essere disposto a rompere il salvadanaio, se non vuole passare le giornate a guardare le pale del ventilatore sul soffitto della propria camera. Il minimissimo che si può spendere è un dollaro e mezzo al giorno per noleggiare una bici con cestino, pedalare un bel po’ sotto il sole torrido, e sborsare 20$ per una giornata d’ingresso (40$ per tre giornate nell’arco di una settimana, questa la formula più conveniente per vedere un numero adeguato di templi). La foto digitale riportata sul pass vi viene fatta in loco, sorridete. I pedalatori fiacchi, non abituati ai giri d’Italia, possono farsi trasportare per 5$ - corpo e bicicletta - da un tuk-tuk, triciclone a motore con rumore da cestello per la centrifuga, dal noleggiatore di bici all’ingresso di Angor Wat, il primo e maggiore complesso della zona archeologica (la biglietteria succhiasoldi è un paio di chilometri prima). Una volta in loco, dotati di mappa, ci si può sbizzarrire pedalando da un tempio all’altro, cercando di rientrare con un po’ di luce: l’illuminazione delle strade non esiste e il traffico cambogiano è selvaggio. Se, però, abbiamo superato la fase del portafogli vuoto e ci siamo un po’ imborghesiti, un forte consiglio, tutto mio, è di affidarci nelle mani di qualche infermiera/e che sappia quello che fa e ci coccoli a dovere. Soprattutto se non si hanno mesi a disposizione per scoprire che cosa c’è sotto ogni sassolino di Angkor, una guida, un tuk-tuk efficiente e un’agenzia turistica locale competente possono fare un’enorme differenza. A me è andata benissimo, perché sono finito nelle mani di Andy, all’anagrafe Andrew Booth, inglese nonché fondatore di About Asia Travel, agenzia ideata per quelli come me. Per carità, non ho nulla contro i coreani, anche se la loro cucina non riesco proprio a buttarla giù e se qualche anno fa ci hanno dato una sonora lezione in quello che pensavamo essere il nostro territorio esclusivo (il campo da calcio). Però, per qualche imperscrutabile disegno del destino, da svariati anni l’intera Corea del Sud sembra essersi trasferita in massa ad Angkor, con tutte le conseguenze del caso. “Vengono in truppa per due giorni - mi racconta la bravissima guida appioppatami da Andy -. Il primo visitano le rovine, quelle principali (facendo milioni di foto alla base dei monumenti più interessanti, tutti con indice e medio a V, in segno di vittoria, prerogativa demenziale di ogni asiatico dalla Thailandia al Giappone; questo lo aggiungo io). Il secondo giorno vengono scarrozzati dai tour leader (coreani pure loro: niente fettine della torta alle guide locali) a fare shopping. Comprano carriolate di funghi per farne il tè, 300$ al chilo. Sul mercato locale ne costano tre al chilo.” La missione di Andy è quella di portarvi per manina fuori dal sentiero del gregge. Consapevole del fastidio che si può provare a visitare un luogo come questo circondati da truppe ululanti, prima di avviare About Asia, da bravo 007 inglese, ha indagato. Assoldate le migliori guide della zona, le ha sguinzagliate a perlustrare tutti i sentieri alternativi, a scovare luoghi magici eppure poco o per nulla frequentati dagli altri. “Qualche filosofo della truppa, inconsapevole degli effetti delle proprie parole per il turismo di massa, agli albori del turismo ad Angkor tracciò una specie di vademecum per visitare la zona archeologica nel giro di ventiquattrore. Il risultato è che, dopo anni, seguendo ciecamente questa regola, tutti i gruppi si trovano negli stessi luoghi al medesimo tempo. Un inferno. La nostra idea è stata quella di stravolgere la regola.” Non a caso ad Angkor circola la chiacchiera secondo la quale entro breve il governo imporrà un limite giornaliero al numero di visitatori.





Un tramonto di teste
In effetti Andy ha straragione. Sei anni fa, come da rito, indicato su tutte le guide di mezzo mondo, mi inerpicai verso l’ora del tè sulla sommità del Phnom Bakheng, tempio da cui si gode (godrebbe) un tramonto spettacolare sulla zona archeologica. A leggere le guide, se non lo fai ti senti un cretino. Già allora, lassù si faticava a fare una foto priva di teste, tale era l’affollamento di esseri umani con le mie stesse pretese. Immancabilmente la palla rossa del sole che scendeva all’orizzonte era incorniciata dalla tempia destra di un giapponese e da quella sinistra di un’americana. Bisognava lavorare con Photoshop, per avere un tramonto credibile. Si lasciava il luogo con un certo spirito antisociale, con voglia di lanciafiamme o di isola deserta priva di reality in cui rilassare i nervi. A pochi anni di distanza il Phnom Bakheng è diventato impraticabile. All’ora del tè il tratto di strada alla base del tempio sembra Times Square nel momento in cui aprono gli spettacoli di Broadway. Autobus parcheggiati da schifo, con il motore sempre acceso e spetazzante per mantenere l’aria condizionata. Ingorghi di tuk-tuk e di gruppi che seguono la bandierina del capobranco. Venditori ambulanti assatanati. In più, ora, ci si sono messi pure gli elefanti. 20$ per salire sulla groppa del pachiderma e farsi trasportare fino sulla sommità del cocuzzolo, se abbiamo le gambe deboli. Una volta lassù, ovvio, il girone infernale dell’ammucchiata. Se riuscite a scovare il sole tra quell’ammasso di crani siete bravi. Perché farsi del male? Il mio tramonto (stesso sole, lo giuro) Andy me lo ha porto su un piatto d’argento. E cioè: pedana di vimini srotolata sul bordo della zona meno frequentata del fossato che circonda l’Angkor Wat, cestino per il picnic, con patatine fritte e bibite. Unici presenti, a parte me, la guida e l’autista: due fidanzatini imboscati sotto un albero a 200 metri da noi e, tra la pedana e il sole, mezza dozzina di docili bufali d’acqua a brucare l’acqua dorata. Un vero spettacolo della natura. Se dio esiste, era lì.








La filosofia di quel tramonto ce l’eravamo portata appresso tutto il giorno. Innanzitutto seguendo sentieri in cui non abbiamo incontrato nessuno, per raggiungere luoghi più o meno battuti. Le guide di Andy sembrano prevedere dove si annida l’orda, e sono bravissime nel depistarla. Nei templi più famosi e importanti - Angkor Wat, Angkor Thom, Ta Phrom, Preah Khan, Banteay Srei -, anche se li dovessimo visitare all’alba, è inevitabile incappare nei gruppi. Ma anche in tali luoghi, viste le dimensioni, è sempre possibile scovare un cunicolo deserto, un angolino appartato con poche anime randagie. E il silenzio è fondamentale per godere appieno dell’atmosfera magica di questi luoghi. Silenzio che domina i sentieri che si imboccano per raggiungere i templi secondari, non per questo meno interessanti. Al più qualche uccello tropicale dal fischio matto che gorgheggia nella giungla, colonna sonora fantastica che ci accompagna mentre calpestiamo le foglie secche (altro rumore, ma di quelli buoni). Un esempio di questi mille sentieri ‘perduti’ può essere quello che dal Victory Gate dell’Angkor Thom costeggia mezzo chilometro dell’antico muro di laterite, per raggiungere il Death Gate. All’improvviso scorgeremo una delle gigantesche teste di pietra khmer che sormontano le porte di accesso alla città antica, incorniciata da un abbraccio di alberi. Immagine che i molti, troppi pittori della domenica provano a riprendere, con colori fosforescenti e linee sballate, nelle loro tele vendute un tanto al metro quadrato ai turisti russi, giù in città. Se abbiamo un salotto, perché massacrarlo?














L’Asia, tutta, è qui
Non tutto il marcio è in Corea, si diceva. Dei giapponesi, Venezia docet, già sappiamo tutto. Il nuovo turismo d’assalto, ora, è quello cinese e quello vietnamita. Grupponi, a distanza ravvicinata dalla Cambogia, per la prima volta fuori dal proprio paese. Come bambini impazziti, che hanno appena scoperto il mare o la neve. Tutto, per loro, è nuovo. Molti ooohhhh, moltissime foto, infinite V di vittoria (de che?), zero mance - alle guide, nei ristoranti, agli autisti. In Cina e in Vietnam la mancia è roba da ricchi che vogliono essere riconosciuti come tali ai tavoli dei ristoranti, e i nuovi viaggiatori di quei paesi hanno il budget limitato, dunque zero mance, uno spicciolo può sempre servire. Altri asiatici che, da sempre, infilano gli artigli in Cambogia, sono i tailandesi. Fin dai tempi del regno del Siam e da quello dei cham nell’attuale Vietnam, la Cambogia si è ritrovata schiacciata tra due vicini con forti ambizioni di conquista territoriale che, un pezzettino per volta, si sono fagocitati questo e quello. Angkor, per fortuna, è e rimane cambogiana. Se ai vicini non fosse chiaro, sulla bandiera nazionale è riprodotta la sagoma dell’Angkor Wat. Ciononostante, l’ascia di guerra con la Tailandia non è mai stata seppellita. Continue scaramucce di confine per territori ‘sacri’ contesi. E poi l’ultima disavventura, quella del nuovo museo ‘nazionale’ di Angkor. I tesori più preziosi della zona archeologica da anni sono al museo di Phnom Penh, però di recente qualcuno (il governo cambogiano e quello tailandese) ha fiutato il business, per cui è stato inaugurato un museo analogo a Siem Reap. Il museo, in realtà, sembra più uno shopping-center, tanto che il complesso alla destra del museo è, in effetti, un mega-negozio per la vendita di souvenir ispirati all’antica città khmer. Fondato con capitali bipartisan, il nuovo, scintillante museo, poco frequentato (gli scavi sono di per sé un grande museo, dunque il museo vero e proprio è frequentato perlopiù nelle giornate di pioggia), tempo fa è stato scenario di un episodio simbolico dei rapporti tra i due paesi. La figlia del re di Tailandia, fotografa senz’arte e probabile prossima regina (ai tailandesi sta più simpatica del primogenito), è venuta in visita ad Angkor. Ha ammirato i tesori custoditi nel museo. Contemporaneamente, ma lo-giuro è una pura coincidenza, qualche ladro nottetempo si è impadronito dei pezzi migliori. Dopo un po’ i medesimi, ma lo-giuro è una pura coincidenza, sono stati ritrovati in Tailandia. Il governo cambogiano li ha chiesti in restituzione. Quello tailandese, prontamente, ha detto: “Ma certo!”, senza dare troppe spiegazioni sull’applicazione del teletrasporto dei medesimi, come se fossero un binocolo o un cappello dimenticati sull’autobus diretto in Tailandia e finiti oltre frontiera per una sbadataggine dell’autista. Dopo un altro po’, reso il maltolto, si è scoperto che i tesori resi al mittente si scrostavano. Il dubbio che si tratti di patacche taroccate è stato seppellito a fatica, per evitare la terza guerra mondiale tra i due paesi. Il museo, di conseguenza, è disertato dai pochi, eventuali visitatori cambogiani che non se la sentono di arricchire ulteriormente la Thailandia.



Da Siem Reap a Kampong Khleang, non solo rovine e matrimoni
Viaggio nel viaggio, i bassorilievi dell’Angkor Wat - come quello strafamoso del Mare di Latte - ci trasportano nelle avventure leggendarie degli dèi indù, quelli del fantastico Bayon nelle battaglie sanguinarie dei khmer. Decorazioni bellissime, tra buddismo e induismo, religioni che, prima di diventare antitetiche, qui si amalgamarono. Nei passaggi della storia alcuni integralisti di una fazione o dell’altra si sono accaniti sfregiando i rilievi ‘nemici’, cui si è aggiunto qualche buco da pallottola nel felice periodo di Pol Pot. Tutto intorno un grande daffare per i restauratori di mezzo mondo, sponsorizzati da alcuni governi locali benestanti (l’ultimo progetto italiano si è concluso qualche anno fa, ora latitiamo) e dall’Unesco. Manodopera cambogiana, spesso impiegata a eseguire restauri semplicioni. ‘Restauro’ sarebbe riportare in vita il colori di un’antica tela, non ridipingerla. Ad Angkor abbondano visibilmente i tasselli falsi, le pareti rifatte. Qua e là qualche testa di statua scolpita un paio di settimane fa in uno dei laboratori specializzati della zona. La polvere, lo smog e la pioggia presto la invecchieranno, ma spesso si vedono ‘inserimenti’ che sono pugni negli occhi. Dettagli irrilevanti per i battaglioni di coppie cambogiane che, nel periodo dei matrimoni, usano Angkor come sottofondo su cui immortalare il giorno delle nozze. Con abiti d’altri tempi, seguiti da codazzi di fotografi, truccatrici e damigelle, prediligono la zona archeologica quale location per ricordare (fotografare, filmare) il ‘giorno più bello della loro vita’ (a giudicare dalle espressioni di alcune sposine, fiaccate dal caldo, dal peso dell’abito nuziale, dal trucco e dai fotografi che le impongono di stare in posa non sembra che quel giorno sia così bello). Mania non solo cambogiana, quella di sposarsi. “Tempo fa una ricca signora portoghese - mi confida la guida - mi ha chiesto, seriamente, se era possibile affittare la zona archeologica per le nozze della figlia”.




Un viaggio ad Angkor, però, può essere non solo un tuffo nella storia khmer e nell’archeologia. Chi ha più di due-tre giorni per visitare la zona di solito si prende una piacevole pausa dalle rovine e si gode l’atmosfera rilassata di Siem Reap. Un salto al vecchio mercato, dove acquistare spezie, frutta spettacolare o qualche salsiccia molto saporita. Di giorno in giro in bici lungo le sponde del fiume che dà nome alla città, di sera al Night Market o a fare baldoria nell’intasata Pub Street, succursale di Ibiza. E, per godere di un altro tramonto spettacolare, un’escursione a Kampong Khleang, villaggio di pescatori a circa 35 km da Siem Reap. Più che di villaggio si tratta di una città, tutta costruita su alte palafitte. Durante la stagione secca, quando il lago Tonle Sap si ritrae, le abitazioni sembrano alti castelli sorretti da stuzzicadenti di dieci metri, alla cui base si affumicano milioni di pesciolini. Il villaggio, allora, è avvolto nel fumo e nella polvere. Quando arrivano le piogge, però, la polvere si trasforma in fango, e i pali che sorreggono le palafitte bastano appena per non ritrovare l’acqua del lago, quadruplicato per dimensioni, all’altezza del televisore. Noleggiare una barca all’imbarcadero di Kampong Khleang verso le quattro del pomeriggio, attraversando campi galleggianti, fino a raggiungere l’abitato galleggiante, può essere un’esperienza indimenticabile. Fatelo, prima che arrivino gli autobus coreani.


In Italia non esiste un ente del turismo cambogiano. Un utile sito è quello del ministero del turismo cambogiano (www.mot.gov.kh), con informazioni relative al visto elettronico e l’indirizzo della sede di Phnom Penh

IN RETE
http://it.wikipedia.org/wiki/Angkor
sito in italiano di Wikipedia, con numerose informazioni storiche e link a tutti i complessi archeologici dell’area
http://it.wikipedia.org/wiki/Angkor_Wat
sito analogo, dedicato all’Angkor Wat
http://www.canbypublications.com/siemreap/srhome.htm
sito in inglese su Siem Reap, con indicazioni di alberghi, ristoranti, bar e mappe della zona




DOVE DORMIRE
Le Résidence d’Angkor
residencedangkor.com
River Road, Siem Reap
tel. (855) 63 963390, fax (855) 63 963391
Albergo del gruppo Orient-Express, a 7 km dalla zona archeologica, Le Résidence d’Angkor offre il massimo del comfort e della tranquillità. Elegante, in un’ottima posizione sul lungofiume, ha 62 stanze, di cui 8 suite. Ottimo ristorante con cucina internazionale (in particolare francese) e khmer all’interno, BBQ restaurant all’esterno, bar con zona wifi, piscina e un eccellente centro Spa (Kong Kea) con 6 stanze per ogni tipo di massaggio. Wireless in tutte le camere, boutique, fitness center, eccezionale colazione a buffet con frutta tropicale. Organizza escursioni attraverso l’agenzia About Asia Travel. Stanze a partire da 218$ in bassa stagione (maggio-settembre), 275/340$ in alta/altissima stagione.




DOVE MANGIARE
Fuori dall’ottimo ristorante del Résidence d’Angkor ci sono diversi ristoranti di qualità e dai prezzi contenuti. Per la cucina khmer: Banteai Srei (Airport Road, 5,30-14 e 18-21,30, piatti autentici secondo la migliore tradizione khmer), Aha (di fianco al vecchio mercato, cucina khmer e occidentale in un ambiente abbastanza sofisticato, wine bar), Khmer Kitchen (nei pressi del vecchio mercato, 11-22), Neary Khmer (Wat Bo Road, 10-22). Oppure, Barrio (Sivatha St. 7, ottima cucina francese fatta in casa), L’Oasi Italiana (un po’ fuori mano, sul lungofiume, Group 4, Phum Trang Khum Slor Kram, ma il suo bel giardino e la sua ottima parmigiana di melanzane valgono lo spostamento, 11,30-14, 18,30-22), Maharajah (buona cucina indiana, nei pressi del vecchio mercato, 10-23). Per gelati e delizie varie (pasticceria, frullati, crêpe) Blue Pumpkin (2 Thnou Street, di fronte al vecchio mercato, oppure la filiale presso il Night Market).



SHOPPING
Artigianato etnico, ma non solo, per tutti i gusti in due negozi a breve distanza l’uno dall’altro, di fronte al vecchio mercato: Kokoon e Senteurs d’Angkor.

PER UN’ANGKOR FUORI DAL BRANCO
Escursioni su misura, fuori dai percorsi più battuti, con ottime guide e autisti esperti, per un’esperienza davvero unica: About Asia Travel (asiatravel-cambodia.com, tel. 063 - 760190), Charles de Galle Avenue, Siem Reap. Tuk-tuk ‘di lusso’ (puliti) o auto, per raggiungere i luoghi più reconditi della zona archeologica e Kampong Khleang con comfort, evitando i gruppi turistici. Buona parte dei proventi dell’agenzia finanziano progetti di scolarizzazione per i bambini cambogiani.

PER LUSTRARSI GLI OCCHI
Fotografi arrivati o aspiranti, non mancate la McDermott Gallery (asiaphotos.net, FCC complex, Pokambar Ave.), con bellissime stampe in bianco e nero sulla zona archeologica, ma non solo.

IL VIAGGIO
IL VOLO
L’aeroporto internazionale di Siem Reap, a 6 km dalla città, è collegato a quello di Bangkok (appena un’ora di volo), a quello di Phnom Penh e a svariate città asiatiche (Singapore, Kuala Lumpur, Saigon, Hanoi, Vientiane ecc.). La compagnia Bangkok Airways (bangkokair.com) offre il volo a partire da circa 150$, sola andata.

COME MUOVERSI
I tuk-tuk vi porteranno dappertutto, basta pagare e, soprattutto, contrattare. Una corsa di sola andata dal centro di Siem Reap ad Angkor Wat (7 km) costa 5$ (corsa urbana 2$), ma il mezzo può essere noleggiato per tutta la giornata. In alternativa ci sono le moto-taxi, più economiche ma meno comode (corsa urbana 1$). Per il fai-da-te si possono noleggiare biciclette , sia da passeggio (1,5$ al giorno) sia mountain-bike (più costose). All’ingresso dei templi principali si noleggiano bici elettriche per 4$, ma hanno un’autonomia piuttosto limitata (30-60 minuti). Per chi ha poco tempo a disposizione le agenzie turistiche locali organizzano tour di una giornata (partenza alle 8, rientro alle 18) a bordo di pulmini, 15$. Ai turisti non residenti non è permesso noleggiare moto.

Fuso orario
Sei ore in più rispetto all’Italia, cinque quando da noi è in vigore l’ora legale.

Documenti
Passaporto con almeno sei mesi di validità. Il visto turistico, ottenibile all’ingresso nel paese (20-25$, a seconda del luogo d’ingresso, e una foto formato tessera) e on-line dura un mese. Una volta in Cambogia è possibile estenderlo per un altro mese.

Periodo migliore
Tra novembre e febbraio, in particolare dicembre e gennaio, meno caldi e senza precipitazioni.

Lingua
La lingua ufficiale è il cambogiano. Nei luoghi turistici è diffuso l’inglese. Qualche anziano parla ancora un po’ di francese.

Moneta
La moneta ufficiale è il Riel (KHR): un euro ne vale 5660 circa.

Prefissi
Il prefisso internazionale per la Cambogia è 00855, quello di Siem Reap 063. Per chiamare l’Italia: 007+39.

Pubblicato su Panorama Travel


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