venerdì 3 febbraio 2012

SENEGAL - IL SENEGAL DAL FINESTRINO


Da Dakar alla Casamance, andata e ritorno a bordo dei taxi-brousse, i taxi collettivi, gomito-a-gomito con i senegalesi

Lasciare Dakar, dopo un po’, diventa un’esigenza. Nonostante le numerose attrattive della capitale, il resto del Paese, con le sue spiagge, i parchi nazionali e la rigogliosa Casamance, chiama. Il mezzo più economico e diffuso per viaggiare in Senegal, come in buona parte dell’Africa, è il taxi-brousse, auto a sette posti - non si parte prima di aver raggiunto almeno questa cabalistica cifra di passeggeri paganti -, non sempre nuova di fabbrica. La gare routière di Dakar è un inferno in terra. Piazzisti di sedili scalmanati che guadagnano spiccioli per ogni passeggero caricato sul primo mezzo in partenza, venditori ambulanti che cercano di rifilarmi tutti i tipi di merci ipotizzabili, taxi collettivi e minibus spetazzanti, pollame assortito, gente in camicia ben stirata e ventiquattrore che cerca di raggiungere il villaggio natio. Faccio appena in tempo a entrare in questa babele che un agente immobiliare di sedili mi ha già infilato a forza in una Peugeot 505 diretto verso l’ex capitale. Saint-Louis, con la sua isola fluviale dall’architettura coloniale e l’atmosfera decadente, irresistibile richiamo per i turisti, sarà la prima tappa dell’itinerario. Il taxi, parcheggiato poco fuori dell’autostazione, è abusivo: l’autista evita di pagare la tangente alla cooperativa e i passeggeri risparmiano qualche CFA, il franco dell’Africa Occidentale. Amin, lo chauffeur, è in tenuta da preghiera, papalina bianca e boubou, l’abito tradizionale, altrettanto candido. È logorroico terminale, tutti gli altri passeggeri - sei adulti sbuffanti più una bambina incastrata fra le gambe del nonno e il tunnel del cambio - se ne accorgono subito: più che concentrato sulla strada sembra interessato a recitare un monologo interminabile. “Sono un marabout - santo/evangelista/stregone musulmano -, oltreché filosofo, autista e meccanico. È vero che la Torre di Pisa sta cadendo?”. Amin salta di palo in frasca, ma a richiesta unanime dell’equipaggio si ferma a un ristorantino libanese: chawarma - involtino di pita, la ‘piadina’ libanese, carne di kebab, patatine fritte e delizioso hummus di ceci - per tutti! A fatica usciamo dalla città, l’ingorgo continua fino all’ultima casa della periferia, dopodiché si corre via lisci come l’olio. La strada è perfetta, sembra d’essere in Svizzera. “È tutta così fino a Saint-Louis?”, domando. “Sì, i presidenti del dopo-indipendenza sono nati lungo questa strada”. Belli i baobab che ci affiancano qua e là, carichi di frutti da cui si estrae il cosiddetto ‘pan di scimmia’, una poltiglia dolce bianca e sabbiosa amata da ogni tipo di bipede. Rufisque, uno dei quattro insediamenti ‘storici’ francesi, sembra una piccola città caotica come tante, almeno vista dal finestrino. “Guarda, che roba! - mi fa Amin, sdegnato per il malcostume imperante - Il commissariato di polizia e, di fianco, i tassisti abusivi. Un po’ come me. Cioè, senza il po’”. Visto il tema, dico la mia. “A Napoli, nel Sud d’Italia, quando fu reso obbligatorio l’uso delle cinture di sicurezza qualcuno si inventò magliette con le cinture dipinte, per fare fessi i vigili”. Mezz’ora cronometrata di risate e, sullo sfondo, grandi giacimenti di fosfato e venditrici di erbe da infuso raccolte in enormi pannocchie. Il calore sembra sciogliere l’asfalto e l’auto. Ristorante Casa Italia, da Ugo, recita un enorme cartello tappezzato di disegni che ritraggono spaghetti e pizze all’entrata di Louga, città poco a sud di Saint-Louis. Lungo l’ultimo tratto Amin preme forte sull’acceleratore, cerca di recuperare il tempo perduto in chiacchiere. Per pochi franchi in più mi porta alla guest-house La Louisiane, all’estremità settentrionale dell’isola collegata alla ‘terraferma’ da un grande ponte metallico, costruito in origine per attraversare il Danubio e giunto a Saint-Louis nel 1897. Il tramonto, i balconcini in ferro battuto di alcune case, i muri giallo ocra scrostati e i nomi che fanno di tutto per ricordare la Louisiana mi danno un benvenuto che sa di magia.









Verso Kaolack
Parto per questa città che ha un nome da merendina Kinder perché è un importante snodo stradale verso la Casamance, il bel Sud tanto boicottato in questi anni dal turismo a seguito dei disordini, una lunga guerriglia sfociata nel brigantaggio. Nel 1982 i diola, l’etnia più importante del Sud, decise di risolvere con le armi l’annoso contrasto culturale ed economico con i wolof di Dakar, dominatori del Nord e veri padroni del Paese. Dopo anni di rapine e scontri armati con l’esercito, oggi si è arrivati finalmente a una situazione di relativa pace, tendente al dialogo, e i turisti cominciano a fare ritorno. La Casamance, d’altronde, ha un potenziale turistico enorme. Natura lussureggiante - al contrario dell’arido Nord, forse invidioso di questa futura fabbrica di soldi -, gente simpatica e ospitale, belle spiagge. È una meta ideale per l’ecoturismo, grazie anche alle numerose infrastrutture e ai prezzi contenuti. All’autostazione il taxi per Kaolack è vuoto e per aspettare che si riempia non è da escludere che debba passare l’intera giornata. Meglio prenderne uno per Thiès, a metà strada, e là cambiare. Il taxi, stavolta, è quasi al completo, sono rimasti solo due posti nell’ultima fila, a ridosso del bagagliaio. Provo a sedermi lì, ma ci sto se mi piego in quattro, bisogna infilarci un altro passeggero e per Thiès ci vogliono circa due ore. Scendo, scarico il bagaglio e improvviso una sceneggiata da toubab - bianco, in wolof -: “Là non ci sto, non posso viaggiare così. O davanti o niente.” È un ricatto da ricco turista occidentale, la coscienza va in cantina, ma la fretta di partire degli altri passeggeri mi promuove alla fila davanti. Una donna, sbuffando, viene retrocessa dagli uomini per fare spazio al grand patron - titolo onorifico qui dato a tutti quelli che, come me, portano a spasso una pancetta rotonda e birrosa. Mi sento uno sporco colonialista, ma almeno non ho il mal di mare. Si parte e cala il silenzio generale: la logorrea di Amin era eccezionale, in ogni senso. All’autostazione di Thiès si ricomincia: con il nuovo autista devo contrattare per il trasporto del bagaglio e lottare per un posto in cui riesca a respirare e, una volta arrivato a destinazione, non debba farmi operare di ernia al disco. Il problema del numero di passeggeri stavolta è risolto in fretta: l’autista ha riempito il bagagliaio con ammortizzatori arrugginiti e non vuole esagerare, caricandolo troppo la carrozzeria potrebbe divorziare dal motore. Si viaggia larghi, in gran comodità. Le strade alla ‘democristiana’, quelle dei presidenti, terminano appena fuori Thiès, dove comincia l’Africa vera. Buche fino a destinazione, l’autista sembra far di tutto per schivarle, ma pare attirato nelle voragini come da una calamita. Non ne sbaglia una. Il rumore da sfasciacarrozze copre persino la radio e ogni volta che sprofondiamo in un’impronta di meteorite gli ammortizzatori urlano vendetta, con didascalia dell’autista imprecante a seguire. Il panorama rurale, là fuori, consola e fa dimenticare il tormento acustico. Splendidi uccelli turchesi volteggiano nell’aria, mentre ogni cinquanta metri se ne vede uno, altrettanto bello ma più sfortunato, spalmato sull’asfalto. A un certo punto ne scorgo uno piccolo, vivo, molto carino, mai visto prima, sul margine destro della carreggiata. Un ornitologo occidentale potrebbe pagarlo qualche ziliardo di dollari, qui non vale la gomma del copertone che servirà a piallarlo. Andiamo piano, l’autista lo schiverà senz’altro, così attento com’è a evitare gli ostacoli, mi dico. CRACK! Rumore di grissino investito da una schiacciasassi. Arrivato a Kaolack non saluto il conduttore, il mio animo ecosensibile non me lo permette. Gli auguro di spendere lo stipendio di tre mesi per riaggiustare i suoi ammortizzatori sfasciati. La vendetta di Sora Natura.









Ziguinchor-Kafountine
A Ziguinchor, capitale della Casamance, ci sono arrivato senza troppe sofferenze, se si eccettuano le buche mostruose del breve tratto di ‘autostrada’ - così hanno il coraggio di chiamarla - in Gambia e l’attesa estenuante di un traghetto, ravvivata dalla visione di un panettone importato dal Brasile (!), marca Balducco, venduto su una bancarella. Eccomi di nuovo in autostazione, altro luogo dimenticato da dio, a recitare la solita parte del toubab viziato. Carico e scarico i bagagli da tre taxi diversi, contrattando ogni volta per mezz’ora, finché trovo quello che mi offre il trono (il posto del morto, secondo altre scuole di pensiero più pessimiste), il sedile davanti, di fianco all’autista. Oggi mi è toccato uno chauffeur poco simpatico: passa il tempo a ruminare il bastoncino pulisci-denti che qui tutti tengono a penzoloni dalla bocca e ad aumentare il volume della radio - da cui escono litanie da muezzin - ogni volta che lo abbasso. All’uscita dell’autostazione il conduttore ingrana la prima con un questuante cieco ancora attaccato alla maniglia della portiera. I primi venti chilometri, fino allo snodo stradale di Bignona, sono buoni, la strada è circondata dalla vegetazione da cui ogni tanto salta fuori una scimmia a caccia di cibo, ma da informazioni di corridoio so già che quelli successivi, fino a Dioloulou, saranno un campo di battaglia dopo il passaggio dei panzer e della contraerea. In effetti, lasciata Bignona, percorriamo cinquanta chilometri che sembrano cinquemila. L’autista combatte il rumore delle ruote che sprofondano nelle buche aumentando il volume dell’autoradio e rimane insensibile quando mi infilo un po’ di giornale appallottolato nelle orecchie. Dovrei scendere a Dioloulou, nei miei pensieri una specie di Itaca dopo la centrifuga allo stomaco avviata dall’inferno di buche e polvere che sto attraversando. Ho talmente idealizzato questo piccolo centro abitato che m’immagino una specie di New York. In realtà, quando ci arriviamo, il luogo è talmente minuscolo che manco me ne accorgo e tiro dritto con il resto dell’equipaggio sino alla frontiera con il Gambia. Quando me ne rendo conto maledico l’autista - “Ma come, hai a bordo un passeggero pagante e non sai dove deve scendere?” - e poi maledico me stesso - “Ma come, scemo che sei, sali su un taxi, paghi, e non sai dove devi scendere?”. Mi tocca aspettare un mezzo che ritorni a Dioloulou, ma qui tutti sembrano assorti nella preghiera: è Ramadan e la gente, prima di entrare nella moschea alle spalle del parcheggio dei taxi, si lava i piedi con acqua contenuta in piccole taniche da asporto. In giro non c’è nemmeno l’ombra di qualcosa di commestibile. Il boss del garage, come chiamano qui l’autostazione, riesce a trovarmi venticinque centimetri quadrati nel deretano di un car, minibus a tenuta stagna stipato di donne e bambini. I dieci chilometri fino a Dioloulou sono una camera a gas fra le buche e non riesco a distogliere lo sguardo dalla maglietta della donna che mi siede davanti e che ritrae Ronaldo con la divisa della seleção e la scritta INTERMILAN - Foodboll Legend. Al capolinea ricomincio a respirare, ma il generale del garage mi vuole affibbiare un taxi al costo di un biglietto per la Luna. Kafountine è a soli 25 km, ma di altri pellegrini come me con cui dividere la spesa in giro non se ne vede nemmeno l’ombra. L’italiano è mafioso, si sa, e decido di sfruttare l’ultimissima carta: l’amico dell’amico, Monsieur Manga, il parroco locale, un caro conoscente di un mio affiliato di cosca di Ziguinchor. Nonostante sia a letto a causa della malaria, si alza e mi scorta al garage, dove scova un taxi a prezzo politico. Potere dei padrini, sempre siano lodati. L’ultimo tratto è uguale a quelli precedenti, osceno, ma l’odore del mare si avvicina e tiene alto l’ottimismo. Un capannello di gente ci blocca nei dintorni di Abené, un villaggio con una bella spiaggia. La strada è dritta che più dritta non si può, il traffico è quello di ferragosto in città, ma un tipo è riuscito comunque a schiantare il suo camion contro l’unico albero da qui all’orizzonte. Poteri della meccanica e del bunuk, il vino di palma che qui tutti estraggono e ingurgitano. Raccogliamo un paio di feriti sanguinanti, da portare al centro medico a breve distanza. La mia coscienza, già nera, dopo questa buona azione riacquista qualche sfumatura di candore. Gli spaghetti e i bungalow iperconfortevoli di Antonella ed Eric, proprietari del migliore albergo di Kafountine, mi fanno dimenticare le buche e la polvere di una giornata rognosetta.








Ritorno al capolinea
Dopo la cura del sonno, dei bagni e del barracuda alla griglia mi sento sufficientemente corazzato per affrontare la lunga e faticosa via del ritorno. Il primo taxi di questa cavalcata è una Land Rover 4x4 verde tarlato, presagio di strade da Camel Trophy. Il mezzo si riempie solo quando due donne finlandesi tardo-freak tappano i due ultimi buchi rimasti sul retro. Si parte e l’autista raccatta gente a ogni angolo di strada. Il copilota è un ragazzone gambiano che porta un anello a forma di coltello sacrificale azteco e che a ogni sosta fuma nervosamente. Poi si aggiunge una bambina. Poi arriva un orco in mutande, machete e taniche bisunte. Il tutto si ritrova al posto guida, con l’autista che tiene una tanica sotto l’ascella per riuscire a ingranare le marce e il gambiano che dice cose brutte brutte in inglese (forse pensava di viaggiare comodo). Lasciata la strada buona, si fa per dire, imbocchiamo una pista. Ho voluto a tutti i costi il posto finestrino, ora mi becco in faccia i rovi-finestrino. La frontiera senegalese non esiste, ma quella gambiana è riverniciata di fresco: strascichi dell’Impero, forse. Il doganiere in tenuta da basket che m’ispeziona il bagaglio mi chiede se sono un dottore, non ha mai visto un beauty-case così fornito di medicinali. Lungo la strada attraversiamo diversi villaggi e i bambini sono particolarmente incuriositi dai toubab: questa via secondaria non vede un gran passaggio di bianchi e siamo un’attrazione. Tutti vanno a scuola con divise decorose, forse un altro imprinting della Regina, e alcune bambine musulmane indossano un velo a cilindro molto diverso da quello usato in Senegal. Arriviamo a Brikama, una sorta di Los Angeles molto Blade Runner, almeno così mi sembra la sua bus station. I cartelli dipinti a mano dei barbieri e dei saloni di moda “last fashion” - sgabuzzini di compensato e lamiere con una Singer - lungo la strada per Banjul, la capitale, sono spettacolari. A Banjul, passato un incredibile clone dell’Arco di Trionfo, con tanto di statua dorata che ritrae Generale con Bambino dalle proporzioni sballate, mi faccio depositare (mezzo n°3) al molo da cui parte, dovrebbe partire, il traghetto per Barra, città sull’altra sponda del fiume Gambia. La nave, infatti, è appena salpata e mi tocca aspettare due ore. Mi faccio un giro tra i negozi di stoffe dei libanesi che non contrattano manco morti, poi passo il tempo a osservare il viavai di gente nella sala d’attesa - tutto il campionario del genere umano -: il ragazzo ggiovane in Calvin Klein, jeans larghi di dodici misure, Nike da rapper, occhiali neri all’iperdesign e megastereo sulla spalla; la venditrice di ghiaccio con un catino in mano che deve pesare cinquanta chili; il ladro che cerca di spingermi verso i cancelli d’imbarco per farmi il portafogli; la toubab - una tedesca o un’americana - di rara bruttezza, qui una principessa solo in quanto bionda. I cancelli dei leoni si aprono, l’orda si spinge per conquistare un posto che non esiste - in realtà c’è spazio per tutti -, vecchia abitudine da stadio. A Barra veniamo infilati, io e le finlandesi, sul mezzo n°5, un car con gli ammortizzatori sbrindellati diretto alla frontiera con il Senegal, e i timpani lacrimano. Oltre la dogana ci aspetta il mezzo n°6, a scelta tra un ciuco che traina un carretto carico d’acqua - probabilmente ha appena finito di trasportare ghiaccio - e un rastafari adrenalinico con una R4 bianca e l’occhio matto. Scelto quest’ultimo, in tempo record l’autista ci porta alla frontiera senegalese fra testacoda e derapate, che almeno servono a tenerci svegli dopo il rintronamento delle dieci ore di viaggio già accumulate. Mezzo n°7, l’ultimo, inshallah. Sceneggiata più dura del solito: per me rimane un solo posto nel solito intestino della Peugeot, il sole sta per tramontare, qui non c’è un albergo che sia uno e devo assolutamente tornare verso la capitale, l’aereo parte domani. I buoni attori, però, sanno bluffare al momento giusto e fingo di non avere fretta, se siedo dietro non è da escludere che mi sentirò male, aspetterò il prossimo, magari dormirò lì, che ore sono, mah, chissà, vedremo... Il passeggero più imbufalito, quello che mi dà del grave (pazzo), forse è lì dall’alba in attesa che il taxi-brousse si riempia, costringe con ricatti morali e male parole il tipo che siede sul trono, bello comodo, a cedermi il posto. Continuando su questa strada l’Illuminazione non la raggiungerò mai, però mi faccio sei ore spaparanzato a godermi il bel tramonto fra le piste di sabbia, i villaggi cresciuti all’ombra di baobab alti come condomini - sono o non sono un turista? - e i folli che, una volta tornati sull’asfalto, ci abbagliano ossessivamente. Non so come l’autista riesca a evitare i frontali. Appena cala il sole da dietro si sente un rumore di scartocciamento, seguito da un insistente ritmo da picchio: una donna sta facendo acqua per tutti, grattugiando con una chiave un grosso pezzo di ghiaccio che tiene avvolto in un panno. Il Ramadan per oggi è terminato, finalmente si può bere e mangiare e l’autista le passa una chiave inglese per meglio frantumare la granita. Dopo una sosta su un marciapiedi di Kaolack per una baguette alla carne piccante e alle patatine fritte, verso mezzanotte raggiungiamo Rufisque. Le finlandesi hanno una casa qui, ma prima di scendere esigono un veloce shopping al mini-market Select, un’oasi asettica di Primo Mondo abbinata ai distributori Shell. Come impazzite corrono ad acquistare Emmental, Camembert, olive importate, spaghetti veraci, manco domani scoppiasse la Terza guerra mondiale. I vichinghi li sapevo affamati, ma non li facevo così chic.









da Vita da Toubab


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