sabato 10 marzo 2012

ASIA - VITA DA BONZI


Le ventiquattrore del monaco buddhista

Bangkok - A prima vista sembrano totalmente indifferenti ai turisti, abituati come sono a vederne centinaia ogni giorno nei due più bei templi della capitale thailandese, il Wat Pho e il Wat Phra Keo. E invece sono proprio i bonzi che per primi ti rivolgono la parola, soprattutto per migliorare il loro inglese, come gli ha consigliato il Maestro di Lingue Straniere. A volte che si risponda assennatamente o meno alle domande ha poca importanza: ciò che interessa loro è far pratica. E così capita di rispondere a questionari quasi meccanicamente, botta-e-risposta a domande senza tono. Se non, addirittura, di dover riempire con palline e crocette libri-quiz di scuola, da far correggere al maestro.
Visti i brevi impegni giornalieri - preghiera e studio per poche ore, il canto del Dhamma (insegnamento del Buddha) alla mattina e alla sera -, sono lieti di fare un giro per la città con il visitatore straniero, anche visto che, per loro, i mezzi di trasporto sono gratuiti - sebbene, per abitudine, siedano nelle parti posteriori degli autobus e delle imbarcazioni che attraversano i canali di Bangkok. Anche per il cibo non hanno spese, offerto loro dai fedeli ovunque lo richiedano: all’alba si possono vedere i monaci in fila camminare lentamente attraverso le strade, con la ciotola e il piatto delle offerte tra le mani. I fedeli, imbastito un piccolo tavolino di fronte alla propria abitazione, riempiono devotamente le scodelle di riso, pesce o frutta, compiendo così la buona azione quotidiana.


Per le famiglie religiose l’offerta al bonzo in certi casi può equivalere al mantenimento di un componente in più della famiglia. Questa offerta viene fatta dal fedele per acquisire merito (tham bun) nell’ascesa - buddhista e indù - del ciclo delle rinascite: colui che in vita si sarà comportato adeguatamente, compiendo buone azioni, avrà una strada più breve, un ciclo più corto di reincarnazioni, prima di raggiungere lo stato meditativo di illuminazione. Il bonzo, nel ricevere il cibo offertogli, non ringrazia: è lui che fa un favore al fedele, degnandosi di ricevere l’elemosina e permettendogli di guadagnare dei meriti. Solo due (o addirittura uno, per gli appartenenti alla setta dei Thammayut) sono i pasti che i monaci thailandesi consumano ogni giorno: il primo all’alba, il secondo entro mezzogiorno, consumato in tarda mattinata, rapidamente e in silenzio, nel refettorio del monastero. Ai monaci è permesso mangiare esclusivamente i cibi raccolti con le offerte, a eccezione di quelli appartenenti alla setta dei Mahanikais: a costoro viene consentito anche il consumo di cibi ottenuti in altri modi. Ogni volta che un monaco entra in contatto con un qualsiasi oggetto - riceva del cibo, vesta un indumento, porga qualcosa a qualcuno - deve concentrare il proprio spirito, come in una pratica meditativa, per non provare alcun piacere: si deve servire dell’oggetto esclusivamente per necessità, e non per una forma di gioia personale. In passato, quando in certi Paesi buddhisti l’uso dell’orologio al polso non era ancora diffuso, alcuni monaci inventarono uno stratagemma per mangiare anche dopo mezzogiorno, soprattutto durante la stagione delle piogge quando, a volte, non si vede il sole per molti giorni. Sedutosi con le spalle al sole, e domandato a un passante se già fosse mezzogiorno, il viandante, per evitare un senso di colpa o un rimprovero per non avere seguito la legge dell’elemosina, elargiva ulteriore cibo al monaco, anche se era pieno pomeriggio: questi, secondo la propria coscienza, si sentiva in diritto di soddisfare l’appetito.






Dopo i pasti e una breve ‘siesta’, inizia il lavoro vero e proprio: la meditazione con i novizi e lo studio dei testi sacri. La meditazione può assumere forme diverse (inspirazioni ed espirazioni controllate, autoipnosi sui colori o su punti luminosi, riflessione su temi come la morte o la bontà, o su parti del proprio corpo), e il suo scopo ultimo è quello di ‘guarire’ dalle malattie dello spirito: la paura, la lussuria, il desiderio, l’ira. Lo scopo principale del monaco buddhista è, appunto, quello di estinguere tutte le passioni, di annullare gli errori, ottenendo una serenità interiore definitiva. Per raggiungere lo stato meditativo, soprattutto nei templi moderni - assai frequentati da fedeli in preghiera e semplici visitatori -, i monaci hanno bisogno di luoghi appartati, silenziosi, dove nessun elemento esterno li possa distrarre. Le forme di meditazione sono innumerevoli ed è il maestro, in base al comportamento dell’allievo, che consiglia quale seguire.



Dopo la meditazione, alcuni monaci si dedicano all’apprendimento o all’insegnamento delle arti curative, altri sovrintendono alla vendita delle effigi sacre - destinate esclusivamente al mercato interno, in quanto la loro esportazione è severamente proibita dalla legge -, presso le entrate dei molti templi. Alcune materie di studio, però, sono poco consigliabili (soprattutto in passato), in quanto ritenute profane: l’astronomia, l’astrologia, la fisica, la matematica, le arti e i mestieri.
Per dormire, i monaci hanno a disposizione delle abitazioni in determinati templi, suddivisi in specie di quartieri: una grande sala dove mangiare tutti assieme e il villaggio-dormitorio, in cui gli alloggi sono simili a palafitte in legno. Una casa all’interno del wat (il monastero) può ospitare da uno a dieci bonzi, e alcuni templi ne contano fino a cinquecento. Ci sono poi i servizi igienici, decisamente spartani. Minuscola, circa un metro per due, è la casetta per la meditazione, in cui ci si ritira per un’ora al giorno in compagnia del Maestro di Meditazione. Di fianco ai templi più grandi si possono trovare anche l’infermeria, la sala per le riunioni collettive e, a volte, persino quella per il computer, utilizzato per rintracciare gli indirizzi dei monaci disseminati nel Paese. Verso il calar del sole, i religiosi si riuniscono nuovamente per la preghiera serale, quindi si ritirano nei loro alloggi, per studiare o dormire.



In tutta la Thailandia, su una popolazione di circa cinquanta milioni di abitanti, i bonzi sono duecentomila e, come tutti i thailandesi, hanno un’origine mista: cinesi, thailandesi veri e propri, birmani, laotiani e bengalesi. Esiste poi un’ulteriore distinzione per quanto riguarda la provenienza: chi risiede nella città indossa la tunica arancione vivo (che ne copre altre due, di tinte leggermente diverse, pendendo sulla spalla sinistra e lasciando nudi spalla e braccio destro); chi, invece, viene dalle campagne, porta una tunica beige-marron chiaro. Le suore buddhiste sono, in confronto agli uomini, una esigua minoranza, vestite di bianco e, come i ‘colleghi’, con il cranio rasato. Usano camminare sempre con un ombrello in mano per proteggersi dal sole cocente o dalla forte pioggia dei monsoni. Buddha disse ad Ananda, suo discepolo prediletto: «Non conviene permettere alle donne di abbracciare lo stato religioso: altrimenti le mie istituzioni non dureranno a lungo».



Nei riguardi delle donne i bonzi uomini hanno un rapporto che potremmo definire di ‘non belligeranza’: si ignorano a vicenda, non le guardano o vi guardano attraverso, pur riconoscendone la nota bellezza nei discorsi con lo straniero. Quando però, per forza di cose, sono obbligati a colloquiarci, i monaci appaiono nervosissimi, si mangiano le unghie mentre parlano o si trastullano le orecchie con le dita, la distanza minima è un metro, e lo sguardo schivo è diretto al cielo o a terra. Questo comportamento deriva dalla proibizione di toccarle e di essere toccati: se una donna desidera porgere qualcosa a un bonzo, l’oggetto va appoggiato nei pressi del monaco, a una distanza tale che egli possa raccoglierla, e non consegnata direttamente. Secondo l’insegnamento del Buddha ad Ananda, i bonzi non devono guardare le donne perché «attraverso gli occhi la concupiscenza trova la via al cuore e scuote i più saldi propositi.... quando, in tali occasioni, un monaco è obbligato a parlare, consideri come madri quelle che sono vecchie abbastanza da considerarsi sua madre, come sorelle maggiori quelle che appaiono un po’ più anziane di lui; come sorelle minori o figlie quelle che sono più giovani». L’eliminazione della bramosia attraverso l’annullamento dei desideri, la rinuncia totale al desiderio, il distacco assoluto da tutto ciò che si desidera sono dogmi fondamentali del buddhismo che, tuttavia, si scontrano con una vita sempre più frenetica e consumistica, come quella odierna della società thailandese.
L’età dei monaci va dai cinque anni in poi, ma ‘bonzo’ si può essere chiamato solamente dopo il ventesimo anno d’età: prima si è e si rimane ‘novizi’. Per una famiglia avere almeno un figlio monaco costituisce un grande motivo di orgoglio e merito nell’accorciare il ciclo delle reincarnazioni. La durata del noviziato dipende dalla condizione economica della famiglia, che non sempre può permettersi di pagare gli studi del figlio per anni. È infatti nei templi che i bambini iniziano la loro educazione, imparando a leggere e scrivere ripetendo le formule sacre.


Dopo lo studio gli impegni sono veramente pochi. Molte ore vengono trascorse su brandine a sonnecchiare o a leggere il giornale o, persino, ad ascoltare musica con un modernissimo e tecnologico iPod. Certo che fa una bella impressione vedere un bonzo, così abituati come siamo a relegarli in un alone di mistico passato, avere a che fare con la tecnologia, sia questa sotto forma di uno stereo o di un telefono, ma anche di un semplice tubo per innaffiare i prati.
In realtà il Buddhismo, più che una vera e propria religione, sarebbe da considerarsi come un sistema filosofico e un codice di moralità. Questa dottrina nacque attorno al 500 a. C. nel Nord dell’India, quando Siddhartha Gautama, di origini principesche, ricevette l’Illuminazione. I buddhisti ritengono che l’Illuminazione sia il massimo traguardo di ogni essere vivente. Il Buddha (ce ne furono diversi nel corso del tempo) non scrisse mai alcuna raccolta di leggi o comandamenti, per cui, in seguito, si crearono scissioni all’interno della dottrina. Oggi esistono due scuole principali di buddhismo: la Theravada o Hinayana (la ‘Dottrina dei Decani’), secondo la quale il sentiero verso il Nirvana (la pace finale, scopo ultimo di ogni buddhista) è una ricerca da svolgere individualmente; e la Mahayana, la quale afferma che solo gli sforzi uniti di tutta l’umanità porteranno alla salvezza, secondo una scuola indiana più recente. Quest’ultima è seguita in Vietnam, Corea, Giappone e Cina, mentre la prima, di stampo più ‘classico’ (deriva direttamente dalle scuole indiane antiche), è largamente praticata in Thailandia, Cambogia, Laos, Sri Lanka e Birmania. Esistono poi altre interpretazioni del buddhismo, come quella indù-tantrica diffusa in Tibet e seguita in Nepal. In India il buddhismo ebbe un momento di larga diffusione circa dieci secoli fa sotto l’imperatore Ashoka, ma in seguito praticamente scomparve, a causa di una penetrazione superficiale tra la gente e al forte richiamo dell’induismo.


Il riti del buddhismo acquistano sfumature differenti a seconda dei Paesi di origine dei bonzi. In Thailandia, per esempio, i monaci offrono alle effigi sacre oli profumati, candele, incensi, fiori di loto, e applicano sulle statue, sui bracieri (e spesso anche sugli autobus) minuscoli quadratini di carta dorata che, a quanto si dice, portano fortuna. A sera, quando il tempio chiude ai fedeli, alcuni addetti raschiano la spessa corteccia dorata dalle statue, accumulatasi durante la giornata, per far spazio a quella del giorno seguente. L’intero kit per le offerte è in vendita per i religiosi e per i fedeli all’entrata del tempio, e gli incassi vengono devoluti ai bisognosi o utilizzati per ristrutturare i templi (in Thailandia si calcola che esistano ben 32.000 monasteri).
I testi liturgici, base del rito buddhista, fanno capo a quattro famiglie principali: i saluti e le lodi, le dichiarazioni, i voti e i testi di protezione. Tutti i bonzi devono seguire cinque comandamenti - validi anche per i semplici fedeli -, da osservare con assoluta rigidità: il divieto di uccidere qualsiasi essere vivente, di rubare, di provare lussuria, di dire cose non vere e di bere bevande alcoliche. A questi cinque se ne aggiungono altri due, validi soprattutto durante i giorni festivi: non devono assistere a spettacoli di danza, di canto o di musica, e non devono decorare il corpo con fiori o profumi. Inoltre, i bonzi non possono dormire su letti alti e larghi, né toccare oro o denaro, non possono attribuirsi doni sovrannaturali o spacciarsi per santi, e sono obbligati a seguire una rigorosa continenza. Quando, per necessità, il monaco è costretto a ricevere o a porgere del denaro, lo dovrebbe fare sempre con le mani coperte da un fazzoletto. Tra gli altri divieti si annoverano quello di scavare la terra (eccetto in luoghi sabbiosi, ove non c’è rischio di uccidere qualche animale), sputare sull’erba fresca o nell’acqua (per lo stesso motivo), tagliare alberi o erba (che servono a mantenere in vita altre creature), cavalcare o viaggiare su un veicolo a trazione animale.




Il rito
Per i bonzi cinesi l’usuale Buddha thailandese - piuttosto snello e dai lineamenti delicati - si trasforma in un uomo corpulento, comodamente seduto e dall’aria beata, al quale si prega tenendo fra le mani due legnetti che combaciano fra loro, di colore rosso e di forma convessa: a fine preghiera vengono lasciati cadere a terra, così da rispondere, a seconda di come questi rimangono girati, se la richiesta al Buddha sia stata accettata o meno (sì/no/forse). Per sapere come comportarsi durante la giornata, invece, i fedeli scuotono - inginocchiati per circa un minuto - un cilindro contenente asticelle numerate: se ne estrae una dalla fessura, a cui corrisponde un cassetto di un mobile, numerato a sua volta e contenente gli aforismi della giornata, stampati su foglietti.
Gli stessi templi fungono, oltre che a luoghi di meditazione e di studio, anche da cimiteri. Le urne cinerarie vengono cementate in file su apposite colonnine, l’una di fianco all’altra, solitamente nei pressi di piccole nicchie votive, alle cui effigi sono offerti minuscoli Buddha di terracotta o in plastica, dorati o argentati.
I monaci buddhisti, in passato, erano gli unici insegnanti e, di conseguenza, le donne non ricevevano alcuna educazione, non potendo avere il minimo rapporto con i maestri: né avvicinarvisi, né parlarci. L’educazione di base che il bonzo oggi riceve è quella dello studio del Pali, una lingua di origine indiana, veicolo della diffusione del buddhismo, propagatosi dallo Sri Lanka in tutto il Sud-est asiatico sette secoli fa. La maggior parte dei monaci, tuttavia, prosegue e completa gli studi, frequentando la scuola superiore o, magari, l’università. Quasi tutti i giovani, inoltre, studiano una lingua straniera - l’inglese, nella stragrande maggioranza dei casi -, ma con grande fatica: il thai ha suoni troppo differenti dalla lingua anglosassone.


Diventare bonzo non è difficile, e quasi tutti i thailandesi - re compreso - lo sono o lo sono stati nel corso della vita, per un periodo minimo di tre o quattro mesi: essere monaci costituisce quasi un obbligo morale per ogni cittadino thailandese. Secondo la tradizione, il momento migliore per iniziare la propria condizione di monaco coincide con l’inizio della Quaresima buddhista (phansaa), che incomincia in luglio e corrisponde al periodo delle piogge. La durata media di permanenza nel monastero dovrebbe essere di tre mesi, ma oggigiorno molti uomini vi rimangono per una sola settimana o due, visti gli altri impegni (lavoro, famiglia): il tempo strettamente necessario per guadagnare un po’ di merito e abbreviare il ciclo delle reincarnazioni. Altri monaci, al contrario, rimangono tali per tutta la vita. Il periodo ottimale per iniziare lo status di monaco sarebbe quello compreso tra la fine degli studi scolastici e l’inizio dell’attività lavorativa o il matrimonio. Tuttavia oggi, a quanto dicono gli stessi monaci, sembra che la pressante ricerca di lavoro distolga le persone dal partecipare in prima persona alla vita religiosa.


Non solo in Thailandia
Negli altri Paesi in cui il buddhismo è diffuso, piccole e grandi variazioni - oltre che sul piano filosofico e dogmatico - investono i riti quotidiani dei monaci, il loro abbigliamento, le caratteristiche esteriori, quelle più appariscenti e riconoscibili anche da chi non segue la loro religione. In Birmania (oggi Myanmar), Paese impregnato da un buddhismo sentito in profondità, uomini e donne passano periodi di ritiro nei monasteri più volte nel corso della propria vita. I primi indossano tuniche color amaranto o, i più stravaganti - molti, fra questi, i novizi - rosso fuoco: la scelta della tinta viene lasciata al gusto dell’individuo. Le donne (methilayin), invece, indossano lunghe tuniche di un rosa confetto e, così come gli uomini, passeggiano sempre con grandi ombrelli fatti a mano, per proteggersi dai raggi solari e dalle intemperie. Un tempo, al posto dell’attuale ciotola per le offerte, usavano una piccola sporta rotonda e piatta, portata sulla testa (ancor oggi se ne vede qualcuna). Un antico proverbio birmano diceva: «Ti farai monaca solo nel caso che perdessi il tuo bambino, o tuo marito ti abbandonasse, o la tua bottega facesse fallimento, oppure tu incorressi in gravi delitti».



Se paragonati ai bonzi thailandesi, quelli birmani - forse per una maggiore curiosità nei confronti dei turisti occidentali, nel Myanmar assai meno numerosi - sembrano più stravaganti ed estroversi: non temono l’avvicinarsi di una donna occidentale, la loro curiosità e la voglia di scambiare opinioni su mondi così distanti è troppo forte per impedire di mantenere quel distacco caratteristico dei thailandesi.
I monaci birmani seguono una gerarchia di sei famiglie: gli shin, i postulanti, che indossano l’abito da bonzo anche solo per un breve periodo; i pasin, ammessi ufficialmente nell’ordine; i phongyi, bonzi da almeno dieci anni; i saya, gli abati dei monasteri; il thathanabaing, il superiore generale, un tempo nominato dal re birmano: è lui che dirige gli affari dell’ordine e della religione di tutta la nazione.
Un accessorio che spesso viene usato dai monaci birmani è un grande ventaglio amaranto a forma di foglia di loto, ricavato da una foglia di palma di talipot (da cui il nome di talapoini, dato dai navigatori portoghesi ai bonzi): questo servirebbe a coprirsi il volto quando incontrano delle donne. I bonzi birmani, a differenza dei ‘colleghi’ thailandesi, passano la maggior parte dell’anno nel loro convento (ponggyikyaung), dedicando i tre mesi della stagione delle piogge - da luglio a settembre - a una vita di studio e di meditazione più intensa.


In Nepal e in Tibet gli ordini monastici sono caratterizzati da altre influenze, storiche e culturali, che ne hanno fatto una classe più riservata, grazie anche alle pesanti persecuzioni subite dopo l’occupazione cinese. I monaci tibetani, anch’essi piuttosto abituati al turismo - così come quelli thailandesi -, mantengono un certo distacco con gli stranieri, e indossano tuniche amaranto su vesti gialle. Il Tibet, almeno fino all’arrivo dei cinesi (1959), è sempre stato un Paese teocratico, nel quale il Dalai Lama (che esercitava anche il potere temporale) e i religiosi godevano la più alta considerazione. Il clero era posto in cima alla scala sociale e godeva di privilegi enormi. Circa un quinto o un sesto della popolazione tibetana aveva fatto il monaco: almeno uno, cioè, dei figli minori, non avente diritto all’eredità della famiglia, destinata al maggiore. All’interno del clero oggi vige una gerarchia piuttosto rigida, con un’élite colta e ricca e un ceto basso di manovalanza, spesso semianalfabeta, con ruoli di tuttofare e di domestico. Tra i bonzi tibetani e nepalesi alcuni scelgono la via dell’eremitaggio - per un certo periodo -, e questo dà loro grande prestigio; altri, invece, si possono sposare e conducono una vita pressoché laica: coltivano i campi, si occupano degli affari e si recano al tempio solo nei momenti di preghiera. Questi possono essere riconosciuti per i lunghi capelli intrecciati.


La maggior parte dei bonzi tibetani (in buona parte rifugiatisi nel vicino Nepal), però, segue l’iter classico monastico: entrati in un monastero in tenera età - attorno agli otto anni -, sono affidati come novizi dalle famiglie a un maestro che insegna loro a leggere, scrivere e imparare i testi sacri a memoria. L’ingresso effettivo nell’ordine avviene attorno ai quindici anni - quando il futuro monaco rinuncia al mondo -, ma è solo dai vent’anni in poi che diventa un bonzo regolare. Nonostante i voti siano perpetui, nella pratica questi possono essere annullati su richiesta del monaco. Ciò avviene spesso in occasione della morte del fratello maggiore: rinunciando ai voti, il bonzo può impossessarsi dell’eredità e della moglie del congiunto scomparso. I monaci tibetani vivono in grandi monasteri detti puri, separati da quelli dei bonzi sposati.



In India, Paese dominato dall’induismo e dall’Islam, il buddhismo sembra non avere spazio, e le piccole comunità monastiche vanno via via scomparendo, alimentate ogni tanto solo dalla visita di qualche monaco proveniente dal vicino Nepal. Il buddhismo si diffuse nell’India orientale - nel Bengala, nell’Orissa e nel Bihar - a partire dall’VIII secolo d. C., ed ebbe un’impronta tantrica. Qui resistette fino a circa il 1200, quando, in seguito all’invasione musulmana - che portò alla distruzione e all’incendio dei monasteri - scomparve quasi definitivamente. Ove sopravvisse si fuse all’induismo dilagante.


In Cina il buddhismo ha visto grandi stravolgimenti dall’avvento della Repubblica Popolare (1949): il governo ha integrato la dottrina nella cultura ufficiale di stato, per farne un utile collante fra le molte etnie credenti - dal Tibet alla Mongolia, dall’India al Sud-est asiatico. Appropriatosi delle terre del clero, il governo cinese ha inserito i monaci nel lavoro produttivo e, di conseguenza, molti bonzi sono fuggiti ad Hong Kong, Taiwan e Singapore. Tuttavia, seppure integrato in un sistema centralizzato, il buddhismo è riuscito tenacemente a sopravvivere in numerose aree del colosso asiatico: basti pensare che il numero dei monaci (vestiti di giallo gli uomini, di grigio le donne) si aggira sul mezzo milione di unità.



E poi c’è lo Sri Lanka, culla del buddhismo, dove  questa dottrina ritornò proprio dai Paesi in cui era stata trasmessa, dopo un lungo buio periodo di abbandono. Anche qui, così come in Vietnam, in Laos, in Giappone, in Corea, in Cambogia e in Mongolia, ogni monaco segue riti e possiede caratteristiche variabili da regione a regione, secondo un unico, antico insegnamento: quello dell’’Illuminato’, Siddharta Gautama, il Buddha.

Pubblicato su Tutto TurismoFrigidaire



BONZI FALSI?
http://pietrotimes.blogspot.jp/2011/11/malesia-hong-kong-corea-del-sud-fede.html


ALTRE FOTO SU:

Nessun commento:

Posta un commento