domenica 4 marzo 2012

MYANMAR - CHEEROTS E TABACCAI AMBULANTI


I cheroot birmani e il rapporto tra fumo e aldilà

Secondo la terminologia anglosassone il cheroot sarebbe il sigaro spuntato, nella specie il cosiddetto ‘sigaro di Manila’: di non grandi dimensioni, di solito cilindrico - ma, a volte, appiattito - e con un taglio netto sia sulla parte anteriore sia su quella posteriore. In America fu il diciottesimo presidente, Ulysses Simpson Grant, a rendere popolare questo sigaro - dal quale si separava raramente - e questo termine nell’Ottocento. E sempre in America, nella cittadina californiana di Modesto (915 Tenth Street), oggi opera la Che’Root, azienda che, sotto il gioco di parole del Che Guevara, offre sigari pregiati (o meno) di mezzo mondo. I cheroot più noti oggigiorno, tuttavia, provengono dal Myanmar, l’ex Burma (Birmania) dei colonizzatori inglesi. Dal 1989 ribattezzato con il nome dell’etnia principale - per volere dei generali che governano, in seguito a un’opera di ‘pulizia linguistica’ dall’eredità coloniale -, il Paese oggi sta vivendo un lento ma graduale boom turistico. I militari, oltre a detenere il potere, sono anche proprietari di gran parte delle infrastrutture turistiche a molte stelle e, come tali, stanno investendo abbondantemente nel turismo organizzato. Paese bellissimo, abitato da gente ospitale e profondamente buddista, il Myanmar offre al visitatore occidentale un salto nel passato, per fortuna ancora lontano (ma solo per qualche anno, grazie allo sviluppo auspicato dai generali: casinò & casini) dai go-go bar di Bangkok e dai teatrini del turismo del sud-est asiatico.





Un ruolo importante in questo panorama di ‘salto nel passato’ è offerto dalla vasta e originalissima produzione artigianale birmana, cui appartiene - perlopiù per il consumo locale - anche il cheroot. Raramente esportato, il gigantesco sigaro birmano è largamente consumato dagli uomini come dalle donne, secondo una parità effettiva dei ruoli (almeno in questo caso). La regione birmana più nota per la produzione di cheroot è lo Stato Shan (il Myanmar è una confederazione di stati e ‘divisioni’ - all’atto pratico regioni), la più grande provincia nord-orientale, al confine con la Cina, il Laos e la Tailandia. Qui si trovano il meraviglioso lago Inle - incluso in tutti i tour organizzati - e la città collinare di Kalaw, dove si raccolgono ed essiccano le foglie usate per avvolgere i cheroot. Taunggyi, capitale dello Stato Shan - circa 150.000 abitanti di etnia Shan, Myanmar, Sikh ecc. -, era una rinomata località collinare di villeggiatura durante l’occupazione inglese. Oggi è un importante centro per i traffici commerciali provenienti dalla Tailandia, la Cina e l’India. A Taunggyi si può visitare una fabbrica di sigari, la Flying Tiger Mashua. Qui si respira un un’atmosfera simile a quella delle manifatture cubane (ma senza inni alla Patria o ritratti del Che): gli operai, intenti al lavoro, sono così abili e abituati alla manualità quotidiana da comporre mazzi di cinquanta cheroot con il solo tatto, senza bisogno di contarli individualmente. Nella divisione di Magway, invece, si trova l’arcinota Bagan, la perla architettonica e archeologica del Paese, oggi assai frequentata anche per i suoi numerosi laboratori artigianali, tra i quali qualcuno adibito alla produzione dei cheroot.






Fumo e spirito
Ex capitale della Birmania a più riprese, Amarapura è una piccola cittadina alle porte di Mandalay, lungo la strada per Sagaing, facilmente raggiungibile in autobus. Nonostante l’importanza che la città ebbe durante il suo periodo d’oro - tra il 1783 e il 1823, e tra il 1841 e il 1860 -, oggi Amarapura sembra più un villaggio satellite della grande Mandalay, assolutamente tranquillo e semideserto nel corso dell’anno. Fondata da re Bodawpaya come capitale dell’Alta Birmania nel 1782, perse due volte il suo primato col trasferimento della corte reale alle vicine Ava e Mandalay. Tra questi due periodi la capitale ritornò ad Amarapura solo in seguito al terribile terremoto del 1823, che aveva semidistrutto Ava. Nel 1795 ospitò la prima ambasciata britannica in Birmania e fu un attivo centro commerciale per la locale comunità cinese. Oggi, abitata da circa quindicimila persone, Amarapura è nota per il suo artigianato in seta, per la fusione del bronzo e per la tessitura del cotone. I palazzi e i templi più interessanti del periodo imperiale, in gran parte in rovina e seppelliti dal tempo, sono situati perlopiù nella fascia di terra compresa fra il gomito del fiume Ayeyarwady e il lago Taung Thaman, quest’ultimo attraversato da un lungo ponte in teak. Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, però, la piccola cittadina si risveglia dal solito torpore e si anima incredibilmente, per circa una settimana, in occasione della festa dedicata agli spiriti. Questa tradizione è diffusa in tutto il Myanmar, in particolar modo nella regione delle pianure che circondano Mandalay. Il culto degli spiriti (nat, dal sanscrito natha, 'Signore-guardiano') in Birmania è molto antico e affonda le radici nel periodo prebuddhista, quando l’animismo era la religione più importante. Diffuso ancor oggi, l’animismo ha trasmesso agli altri culti la credenza negli spiriti che, in certe regioni, si è profondamente mescolata al buddismo. I trentasette nat del pantheon birmano, di conseguenza, possono essere paragonati un po’ ai santi del cattolicesimo e hanno una funzione importante nella vita quotidiana dei fedeli.


Molti altri centri della regione organizzano feste di questo genere - la più imponente si svolge nella vicina Taungbyon -, ma quella di Amarapura è fra le più animate. In questa occasione, infatti, le viuzze del paese vengono affollate da centinaia di bancarelle - soprattutto lungo la strada asfaltata principale e l’ansa sul fiume -, e si svolgono ininterrottamente spettacoli di danza (pwe) e musica tradizionale - fra cui quelli propiziatori, inscenati in onore degli spiriti -, processioni e pellegrinaggi alle pagode. Il nat pwe è costantemente accompagnato dalla musica delle orchestrine, dove troviamo diversi strumenti a percussione (gong, tamburi, xilofoni), tutti utili a richiamare gli spiriti e a farli materializzare nel corpo dei danzatori. I ballerini (nat gadaw, 'mogli degli spiriti', solitamente donne o travestiti), indossati abiti di seta (longyi) dalle tinte sgargianti, offrono agli spiriti tutto il meglio della terra, secondo gli stereotipi rurali della società birmana: denaro, sigarette e alcol, simboli indiscussi della ricchezza materiale. Le banconote, esclusivamente quelle con il taglio maggiore di kyats - la moneta locale -, vengono intrecciate in lunghe collane e agganciate agli abiti con aghi da balia. L’alcol e le sigarette, invece, sono consumati 'dal vivo', direttamente dai danzatori che, 'impossessati' dagli spiriti - un po’ come nel candomblé brasiliano o nella santería cubana -, usano il proprio corpo per trasmettere il benessere così acquisito ai nat e ingraziarseli. Tra gli spiriti che spesso sembrano fare capolino in queste feste c’è Ko Gyi Kyaw (“grande fratello Kyaw”), amante dell’alcol e ballerino sconcio e scatenato. Raramente, si narra, uno spirito s’impossessa anche di qualcuno tra il pubblico: evento, questo, temuto dai più. Ogni tanto, inoltre, qualche danzatore in estasi da trance getta manciate di banconote - questa volta, però, di piccolo taglio - agli spettatori, i quali si accapigliano per conquistarle. Alla danza si alternano continui cortei fra i tendoni e i capannoni, solitamente aperti e scortati da alcuni figuranti, impersonati da transessuali: queste processioni, generalmente, servono a raccogliere fondi per la festa e per gli spiriti, fondi utili, nella pratica, a restaurare o costruire qualche pagoda nei dintorni. A tutto ciò si aggiunge l’attività frenetica di numerosi venditori ambulanti, giunti fin qua da tutta la regione per la grande occasione commerciale dell’anno: circo ambulante (con la 'donna dalla testa mozzata', uno spettacolo fatto di giochi ottici a base di specchi che fa andare in visibilio i bambini), venditori di collanine e ghirlande di fiori, ristorantini da marciapiedi, venditori di foto delle attrici famose birmane, di fiori e giocattoli. Qualche ubriaco fa da contorno e grande è il viavai dei barcaioli, intenti a trasportare le centinaia di visitatori giunti in paese. Di stranieri, una volta tanto, non si vede nemmeno l’ombra.

pubblicato su Qui Touring






Tachileik, la città dei tabaccai ambulanti

Fumatori di tutto il mondo, unitevi! Abbiamo scovato un posto che vi piacerà. Zero divieti, se non virtuali, e molte, moltissime sigarette in circolazione. Marchi altisonanti e internazionali, che non sempre, almeno qui, corrispondono a tabacco DOC. Ma, l’importante, in fondo, è fumare senza troppissime rotture di scatole, no?


Zona di frontiera, in tutti i sensi
Thacileik è uno di quei luoghi in cui ci si imbatte solo per caso. Sì, perché per arrivarci bisogna sudare abbastanza. Il luogo turistico - si fa per dire - più prossimo è la vicina Mae Sai, nel cuore del ‘Triangolo d’Oro’ tailandese. Altra città a non ricoprire un luogo fondamentale per l’esistenza del mondo, se non forse per i suoi abitanti. Eppure, comparata a Tachileik, sembra New York. Anni fa era una bailamme di genti e merci, composta da una polverosa strada sterrata e poco più. Era uno dei rari punti d’accesso dalla Thailandia (ma solo per i tailandesi) al neobattezzato Myanmar, già Birmania (sempre Birmania, o Burma, per chi non ha mai accettato il regime militare che da anni tiene sotto chiavistello domestico la dissidente e premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi). Motivo di esistere delle due cittadine dirimpettaie, appunto, la frontiera e i suoi da sempre loschi traffici. Qualche anno fa, però, qualcuno ha deciso di ripulire la zona, almeno sul versante tailandese. Strade asfaltate, templi buddisti lucidati, alberghi con insulsi sovraprezzi, peones birmani rifugiati sul lato di qua, a caccia di condizioni di vita migliori. Sul lato di là, passata la fitta maglia di sbarre e militari in frontiera, la povertà e i problemi di sempre (potere tutto nelle mani dell’esercito, tiramenti di cinghia per arrivare a sera con lo stomaco pieno). Qualche genio/stratega del marketing turistico un bel giorno deve aver fatto due-più-due e capito che un maggior transito di persone tra le frontiere, includendovi i turisti, avrebbe risollevato almeno in parte l’economia latitante della zona. Non si può vivere di soli profitti derivanti dall’oppio, qualcuno deve aver detto giù alla Nazioni Unite, e la ramanzina deve essere arrivata pure da queste parti. Di recente, dunque, il democraticissimo Myanmar ha deciso di incamerare qualche dollaro fresco aprendo un pochino la porta d’ingresso. Oggi, con 10$ a cranio e un paio di fotocopie del passaporto, oltre all’originale, tutti possono varcare la frontiera per non più di 24 ore. Toccata, spesa e fuga, al mittente in Tailandia.




Sull’attenti! Il Generale vi osserva
Già attraversare il confine dà qualche vibrazione, soprattutto quando si raggiunge il posto di controllo con i militari birmani. Mentre un paio di loro ti stampano un permesso di transito provvisorio (un pezzetto di cartone con la tua faccia digitale stampata sopra, specie di ‘buono’ per il tuo passaporto, momentaneamente imprigionato nel cassetto di una scrivania; ti verrà reso solo al rientro in Tailandia, ottimismo necessario e incluso per forza di cose nei 10$), non si può fare a meno di venire ipnotizzati da almeno un paio di calamite per gli occhi. Innanzitutto le labbra rosso sangue dei militari, intenti a masticare costantemente noci di betel. E poi lo sguardo, severo e controllore, del Generalissimo del momento, Sommo Rappresentate del Paese, che in divisa da Giorno della Nazione, a settemila medaglie, ti osserva cattivo dall’alto di una foto appesa all’altezza dei due orologi che segnano l’ora di Bangkok e quella di Yangon, sfasata di mezz’ora (tutto, a parte il buddismo, in Birmania sembra sfasato). Come lasci il gabbiotto delle scimmie vieni accolto da una collezione di cartelli di dimensioni ciclopiche. Per una volta tanto non pubblicità commerciale, ma dedicata all’eterna lotta del Bene contro il male. Quest’ultimo, nel caso particolare, è rappresentato da una serie di disegnini poveri di arte ma ricchi di morale e di gusto vintage: lo spacciatore di droga, il drogato, il ladro, lo sfruttatore della prostituzione, l’AIDS, il trafficante di persone. Tutto il calderone di ciò che non andrebbe fatto. I cartelli, dunque, ti dicono subito che (1) a Tachileik tutti quei settori del mercato hanno prolificato, e forse prolificano ancora, (2) fai il bravino oppure sono guai (pensa alle gengive rosse dei militari e alle medaglie del generalissimo, ti passerà al volo la voglia di fare il furbo). Per gli esseri semplici, che non vogliono diventare i protagonisti di qualche film americano d’azione già stravisto (Rambo ti viene a salvare solo al cinema), non rimane che (A) affidarsi alle grinfie degli autisti di tuk-tuk - i trabiccoli a motore, tre ruote e rumore di cestello da lavatrice esploso -, che per pochi dollari, da contrattare fino allo spasimo, ti faranno fare un city-tour concentrato: due pagode + un salto al villaggio con le ‘donne giraffa’, in realtà un teatrino posticcio costruito a uso e consumo dei turisti mordi-e-fuggi, per di più con donne provenienti da un’etnia diversa da quella dei Padaung, che davvero usa gli anelli al collo (attrici prezzolate, dunque); oppure (B) farci fagocitare dal mercato più incasinato della regione, a tre passi dalla sbarra della frontiera.






Merci per tutti i gusti e per (quasi) tutti i polmoni
Tra bancarelle, bonzi, mendicanti e turisti tailandesi e cinesi subito si notano le decine di venditori ambulanti di sigarette. Cestello di plastica appeso al collo, con tanto di numero, in caratteri occidentali e birmani  - le licenze devono essere parecchio ambite -, uomini e donne, passano le giornate a caccia di clienti. Fare abbastanza aggressivo e accalappiante. Sul lato tailandese si deve essere sparsa la voce che a Tachileik le sigarette te le tirano dietro, e in effetti è vero. I prezzi sono un affare, e c’è chi viene a fare scorte di stecche con nomi importanti e internazionali (Marlboro - classiche e al mentolo -, Camel, Kent, Mild Seven, L&M), oppure solo un po’ di pacchetti alla volta. Piccolo dettaglio: gli esperti del settore sottolineano come, in realtà, sia tutto tabacco taroccato, marchi contraffatti, perlopiù di fabbricazione locale ma di involucro international. Dio solo sa, dunque, che cosa c’è dentro, come è stato lavorato, attraverso quali processi chimici. All’apparenza, però, le sigarette acquistate qui fanno il loro bel figurone, quando offerte ad amici e parenti una volta tornati in Tailandia. Altro particolare interessante: nel cestello, per arrotondare, qualche venditore (uomini, di solito) propone anche pillole di Viagra e film porno. Taroccatissimi pure loro, of course (se non fumi avrai pure qualche altro vizio che si rispetti, no?). Qualche venditrice, invece, arrotonda con gadget di varia natura, tutti rigorosamente made in China: mazzi di carte ‘spiritosi’ (con la facciazza di Saddam Hussein stampata sul retro), ventilatori tascabili, rasoi elettrici. Sulle bancarelle ti prendono a schiaffi amuleti, ‘medicine’ tradizionali e afrodisiaci, cistifellee d’orso, pelli di tigre e di altri rari felini, teschi, tutti ricavati da animali protetti, qui uccisi e venduti senza il minimo controllo. Alcune bancarelle sembrano un museo degli orrori dedicato ai mille modi per fare a pezzi Sora Natura. Qua e là spuntano teschi di scimmia, a volte utilizzati come elegante posacenere (come vi sentireste se, osservandovi dall’alto delle nubi del paradiso, una volta passati a miglior vita, qualcuno usasse il vostro cranio come posacenere?). Ciò è dovuto al forte influsso culturale, antico e duro da cambiare, della Cina, da sempre con più di uno zampino in Birmania e dalla notte dei tempi con un rapporto tutto particolare nei confronti del mondo animale.





Shopping innocuo
Ben più innocui sono i sacchettini di tanaka, la polvere biancastra ricavata dal legno dell’albero omonimo. È la ‘targa’ di bellezza per le donne birmane, che amano cospargersene ampiamente il volto. Da queste parti, come in molte altre dell’Asia, essere abbronzati fa ‘contadino’, dunque non sta bene. Meglio infarinarsi il volto, come si faceva nelle corti reali europee settecentesche. Alcune madri estendono il maquillage anche alla prole più giovane, fronte e braccia, maschietti inclusi. La polvere di tanaka, c’è chi lo pensa davvero, fa bene alla pelle, dunque viene estesa a tutta la famiglia (mariti e figli adulti esclusi, non è roba da machos). A Mae Sai le donne birmane espatriate si riconoscono al volo grazie proprio alla polvere con la quale si cospargono il viso, a volte con effetti inquietanti per la vista (il bello, si sa, è un concetto molto soggettivo). Ma che cosa può comprare, un turista ‘normale’, a Tachileik, se non si è attratti dalla roba fasulla, dai poveri feticci animali e dalle polveri di dubbia bellezza? Tra le bancarelle c’è di tutto, dall’artigianato birmano più classico - le grandi marionette di legno e perline, i famosi arazzi kalaga di Mandalay, rivenduti ampiamente in Tailandia, bei longyi, eleganti parei usati anche dagli uomini per coprire le gambe, oppure qualche ‘vecchio’ peso per l’oppio a forma di paperelle di metallo (quelli davvero antichi sono già scomparsi nelle collezioni private da anni) - a incredibili quantità di abbigliamento economico (le grandi marche sono taroccate pure quelle, ça va sans dire) e di accessori (occhiali, cinture, portafogli, orologi non esattamente svizzeri). Dopo tanta abbondanza è facile, a fine giornata, tornare in frontiera, poco prima che questa chiuda verso l’ora del tè, a mani vuote. Con sigarette nello zaino (non più di 200, secondo la legge tailandese), ma solo se siamo molto ottimisti sulla loro bontà o se abbiamo il portafogli troppo vuoto per permetterci quelle più care di Mae Sai. Magari qualche souvenir birmano, peraltro reperibile in triplice copia oltreconfine. Forse la migliore cosa da portare con sé è il ricordo di un luogo vagamente selvaggio, dalla forte atmosfera di frontiera. Le labbra rosse dei militari birmani e la faccia inquietante del loro comandante supremo, senz’altro, non le dimenticheremo in fretta.

Pubblicato su Smoking



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