mercoledì 7 marzo 2012

THAILANDIA - IL FUMO DEL TUK-TUK


Fumare a Bangkok, nonostante i molti divieti

Passi da gigante, sembra aver fatto l’ex Regno del Siam, in questi ultimi anni. La ‘tigre d’Asia’, rampante e avida di benessere, si è rimboccata le maniche e, mattone su mattone, ha ricostruito un’immagine e un panorama. Non più solo turisex, importante fonte di guadagno per molti anni, ma ora anche centri commerciali scintillanti, un nuovo aeroporto internazionale a cinque stelle, specie di clone del pluridecorato JFK. Più pulizia nelle strade, taxi rosa confetto tirati a lucido, meno mendicanti e più business. E sullo sfondo, la monarchia di sempre, venerata come una seconda religione. Dopo il buddismo, ovvio.


Un maquillage volutamente visibile
“Credevo di trovare mendicanti e risaie. Rompiscatole e immondizie. Arrivato all’aeroporto di Bangkok mi è caduto il mento per la sorpresa. A Montreal un aeroporto come questo ce lo sogniamo…”, così Fred, turista canadese di passaggio da Bangkok, mi descrive il suo arrivo in Thailandia. Aspettative ribaltate, plurime sorprese positive, revisione dei preconcetti. Chi l’ha detto che l’Asia non cambia mai? C’è Asia e Asia, e Bangkok ne è la prova del nove.
Nel 1989 assaggiai la mia prima Thailandia. Prime foto di viaggio, e la mia attenzione si concentrò quasi esclusivamente sui mendicanti. Quando le proposi al direttore di una Stimata Rivista di turismo mi guardò strano, non senza ragioni.
“Sì, molto belle. Ma se le pubblico in Thailandia non ci va più nessuno. Noi i Paesi li promuoviamo, mica li affondiamo.”
Allora ero giovane e pieno di epici pensieri. La mia attenzione cadde su ciò che più contrastava con la mia tranquilla quotidianità bolognese. Non il buddismo (Baggio era dietro l’angolo) né le lavoratrici a tassametro (i viali di Bologna ne abbondano), non una cucina piccantissima (i miei vicini di casa, dell’estremo Sud, mi avevano già bruciato il palato a più riprese con svariati inviti a cena) né i canali al posto delle strade (Venezia a un’ora e mezzo di treno). La miseria brutta, quella sì, aveva calamitato la mia attenzione e i miei zoom.



In vent’anni, come un’orchidea thailandese, il Paese è fiorito. I tuk-tuk, i trabiccoli che per qualche bath ti scarrozzano qua e là nel dedalo Bangkok, sono diventati più educati (probabilmente stangati dalle multe e dalle mance ai poliziotti). Più puliti, meno inquinanti, alcuni davvero tirati a lucido. Sembrano fermarsi quasi tutti ai semafori, pratica impensabile alla fine degli anni Ottanta. Certo, alcuni autisti continuano a guidarli su due ruote anziché tre (l’anno scorso un turista irlandese ci ha lasciato le penne a Pattaya, grazie a un pilota che pensava di essere al Motor Show e che si è orrendamente schiantato), ma i più sembrano aver richiamato i cavalli nel serraglio ed essersi dati una calmata. Pure il loro inglese è migliorato. Vent’anni fa un autista mi fece fare il giro dell’oca in piena notte (“Chinatown, please”. “Yes, yes.” Dopo ore di su-e-giù compresi che Chinatown non sapeva dove/che cosa fosse), oggi ti chiedono correttamente di dove sei, com’è la birra a casa tua, quanto costa un litro di benzina da te (meglio mentire, penserebbero che tutti gli italiani siano miliardari).
Alla fine degli anni Ottanta il re era sessantenne, oggi ultraottantenne, malaticcio e acciaccato. Vent’anni fa il sovrano era in forma e pieno di iniziative, sempre con una macchina fotografica al collo, qua e là in giro per il Paese a vedere che cosa poteva fare per la sua gente. I bordelli di Bangkok lavoravano instancabilmente, grazie a un settore del mercato inventato dai cinesi e poi esploso grazie ai militari statunitensi parcheggiati nella città durante la guerra del Vietnam. E al Lumpini Stadium gli adolescenti palestrati si spaccavano le ossa per pochi spiccioli e molta gloria locale nel santo nome della Muay Thai, la boxe thailandese, antica che più antica non si può.


Oggi, quasi tutto uguale, ma con più scintillio
Oggi la Regina, bella ed elegante nelle foto scattate dal marito decenni fa, ha messo su qualche tonnellata. E così la figlia-principessa, le cui mostre fotografiche (figlia d’arte e, soprattutto, di papà), con molta eco ma poca arte, diventano il titolo di prima pagina di tutti i giornali tailandesi, non importa se là fuori è scoppiata la Terza guerra mondiale. Le ballerine in costume tradizionale continuano a eseguire accurate danze tradizionali di fronte al tradizionale polpettone di turisti e fedeli buddisti che ogni giorno bruciano incensi e suole presso il tempietto di Erawan, incastonato fra un grande magazzino all’americana e l’altro. Ma oggi lo fanno con facce annoiate. Di turisti ne hanno già macinati a migliaia, e tu sei solo l’ennesimo con la bocca semiaperta che si stupisce per la loro bellezza.
Khao San Road, altro palcoscenico davvero interessante, vent’anni fa era un ghetto per ‘viaggiatori’ con la spocchia della casta, piccoli Bruce Chatwin con zaini pesanti sulla groppa e portafogli leggerissimi in tasca. Vi trovavi guest-house a prezzi stracciati e pizze indecenti a prezzi decenti. Nessun tailandese frequentava questa via, se non per lavorarci e vendere qualcosa ai farang, gli stranieri con la smania di spostarsi da A a B. 


Oggi tutto, o quasi, è cambiato. Khao San Road, arricchitasi, è diventata attrazione a sé. Come una specie di Los Angeles in Blade Runner, dopo il tramonto il luogo si trasforma nell’accozzaglia umana più centrifugata e globale che sia immaginabile. Adolesceme inglesi in minigonna a caccia di discoteche, israeliani in ciabatte a caccia di piercing a prezzi da liquidazione, finte donne Akha (una delle tribù mangiacani del Triangolo d’Oro) a caccia di acquirenti dei loro ninnoli etnici, italiani a caccia di pizze veraci (oggi purtroppo ancora indecenti, ma con la variante di avere pure prezzi indecenti), zoccole e ladyboys locali a caccia di clienti (clienti a caccia di Z&L), qualche tardo-hippie giapponese a caccia del proprio didjeridoo, probabilmente perso in quel marasma di genti & ammennicoli durante l’ultimo abuso di sostanze non riconosciute dal governo. Ah, dimenticavo, l’elemento più interessante: tailandesi veri, perlopiù coppiette giovani e appena uscite dal parrucchiere, a caccia di visioni farang, di stili di vita oltreoceanici o, più semplicemente, televisivi. Vespe vintage, magliette Dolce & Gabbana a strafare, tutte le lingue del mondo nel frullatore, parrucchieri per dreadlocks ogni cinque metri e, se possibile, la visione di un film, gratis, dal vivo. Blade Runner, appunto.


I bordelli di Patpong e di Sukhumvit, non distanti, continuano a fatturare valute importanti. Divenuti ormai istituzione (un tempo trasgressione), questi dollarifici (eurifici, sterlinifici, yenifici, fate voi, basta pagare, se possibile con roba quotata) non hanno mai chiuso i battenti, nemmeno durante le occasionali ventate di ipocrisia che la stampa locale (opinione pubblica? privata?), forse per coscienza non limpida, sembra usare come cipria con l’arrivo delle mestruazioni. Sul Bangkok Post ogni tanto capita di leggere articoli che puntano l’indice contro nazioni confinanti dalle economie stracciolate che, poverine, svendono le loro donne con forti rischi di malattie ecc. ecc. Sembra essere tipico dei Paesi che si rifanno le ossa dopo la tempesta, quello di additare le miserie degli altri (ieri i nostri santi mafiosi d’esportazione a Broccolino e oggi i nostri orribili immigranti; i thailandesi che prima consumano tutto il loro tek, poi iniziano a importarlo dal Myanmar, dando il colpo di grazia anche alle foreste birmane; le nostre industrie avvelenatrici nel sacro nome del boom economico e della tredicesima, e laggiù la povera Amazzonia che scompare… la lista potrebbe andare avanti all’infinito, ma questo è, sarebbe, un articolo sul fumo in Thailandia, non una crociata contro le ipocrisie del mondo). Patpong, per tornare all’origine delle cose, da scannatoio per marinaretti che hanno passato troppo tempo a bordo, oggi è diventata una specie di San Marino del sesso fattosi barattolo di pelati, scatola di biscotti. Prodotto da banco, direbbero nelle farmacie nostrane. Il kitsch ombra di se stesso, circondato da magliette, guantoni da muay thai, vermi fritti, Rolex falsi, ristoranti italo-thailandesi, gente anziana che contesta il conto del petto di pollo alla parmigiana per le troppe tasse (sì! anche i thailandesi pagano le tasse!), l’elefantino che posa sul marciapiedi per le foto dei turisti, karaoke falsi, giapponesi veri, involtini primavera bisunti, musica oscena, luci da luna-park, fidanzate da luna-park, gatti randagi e… sigarette!


Foto terroristiche, come altrove. Divieti, come altrove
Eccoci arrivati, come direbbero gli americani, al punto. Siamo partiti da lontano, siamo passati attraverso i gatti, ed ecco il nocciolo della questione. I gatti, in effetti, non chiedetemi perché, non saprei rispondervi, hanno il loro ruolo importante in questo settore. Nella bailamme di Patpong, infatti, fra luci accecanti e musiche assordanti e cosce pure accecanti, chi vuole vendere un po’ di sigarette deve essere sensibile al marketing. Altrimenti, in tutto quel casino di casini, passerebbe inosservato. Anche se sui pacchetti è impresso tutto ciò che di più orripilante è in circolazione (bocche e faringi esplose dal cancro, bebè affumicati da genitori poco sensibili al buco dell’ozono, gente prematuramente incartapecorita), le foto terroristiche non sembrano essere abbastanza calamitatrici. Ecco dunque assoldato un battaglione di gatti addomesticati, in funzione attira-attenzione. Dormono in un cestino sotto una stecca di Marlboro, oppure zompano tra le mani della venditrice, che annoiata a morte dalla quotidianità e rintronata dal luna-park che la circonda, usa il proprio felino in funzione semi-circense, per catturare gli occhi dei fumatori. Ma che carino il gatto, ehi, ma qui vendono sigarette, evvai. L’apertura del portafogli è il passo immediatamente successivo, e il marketing non è acqua fresca.


Questo dettaglio che va dall’amore per Sora Natura a quello per Sora Nicotina, passando per le dure leggi del mercato, è però un semplice, piccolo aspetto del fumo in Thailandia. Qui, come in ogni altro luogo della terra, le leggi e gli affari, non senza contraddizioni e barricate partigiane, sembrano incessantemente giocare a braccio-di-ferro. Divenuta una specie di Paese-simbolo della lotta al fumo nel Sud-est Asiatico, assieme a Singapore, qualche anno fa la Thailandia ha inaugurato una serie di leggi antifumo, non sempre rispettate. Dal 1995 vige l’obbligo delle foto terroristiche che coprono metà del pacchetto, accompagnate dalle classiche scritte che rilassano il fumatore quando acquista il pacchetto (“se mi apri domani muori”, o giù di lì). Dallo stesso anno è vietata la pubblicità del fumo, e sulla carta i negozianti beccati a vendere sigarette ai minorenni rischiano 750$ di multa e tre mesi di prigione. Ufficialmente gli ‘spacciatori’ di nicotina non potrebbero esporre i pacchetti, la multa si aggira sui 480$ nel caso qualcuno si prenda davvero la briga di andare a sindacare. Questo regolamento è rispettato perlopiù nei negozi con pareti e soffitto, soprattutto nelle catene tipo Seven-Eleven, dove se vuoi comprare delle sigarette le devi chiedere al cassiere che le tiene imboscate dietro il banco. Altra storia vige per i bancarellari di strada, dove l’esposizione dei pacchetti è fondamentale. Gatti, dunque.


La prima legge antifumo risale al 2002 e impone il divieto di contaminare l’aria pubblica di centri commerciali, internet café, cabine telefoniche, saloni di bellezza, luoghi di culto, palestre, bagni pubblici, università, ospedali, aeroporti, mezzi di trasporto. La stessa legge permetteva le cosiddette smoking boxes - ghetti per tossici della sigaretta, monolocali trasparenti in cui i fumatori venivano confinati a godere una specie di aerosol coatto alla tripla nicotina -, presenti nelle università, fiere, aeroporti. Tali istituzioni, però, vanno scomparendo, e se davvero vuoi fumare te ne devi andare fuori e unire i tuoi fumi a quelli dei tuk-tuk.
L’esempio della Thailandia, secondo i legislatori, oltre a ripulire i polmoni locali servirebbe a sensibilizzare anche i vicini ‘sporcaccioni’, tipo Laos, Cambogia e Indonesia, dove si fumano quantità industriali di sigarette, la campagna antifumo è pressoché inesistente e il contrabbando dilaga. La censura thailandese, però, come tutte le censure, ogni tanto sembra esagerare. Non solo sono proibite le foto di gente che fuma, ma perfino in certi film o sceneggiati americani, quando il diavolo appare mezzo schermo viene annerito. Qualche stacanovista della fascetta nera è arrivato addirittura a censurare le zie nicotiniche di Bart, nei Simpsons… e, contraddizione delle contraddizioni, in qualche occasione si è arrivati a censurare le stesse pubblicità antifumo. Il famoso cane che si morde la coda.
In generale, possiamo dire, le regole sono rispettate, con occhi chiusi qua e là. Chi davvero sembra fregarsene delle regole, sempre qua e là, sono i turisti stranieri. Soprattutto europei.




Mercato, mercato, mercato
Sullo sfondo di tutta questa ridda di regole & proibizioni, ovviamente, gongola il signor Mercato. Tutte le multinazionali, quelle con i muscoli grossi, fanno affari in Thaliandia. La BAT (British American Tobacco) e la Philip Morris sono presenti con i loro stabilimenti locali, ma l’azienda leader è la Thailand Tobacco Monopoly, la stessa che negli anni Settanta dichiarò guerra agli USA. In una serrata protezionistica, allora il monopolio di stato decise che gli americani e i loro prodotti si erano spinti troppo lontano, per cui, con la scusa ridicola di salvaguardare la salute della nazione, chiuse il mercato locale alle importazioni straniere. I colossi della sigaretta a stelle-e-strisce, però, non rimasero a guardare, e forti dei loro avvocati riuscirono a convincere il GATT (l’organismo del commercio globale) a dichiarare illegale il divieto, sino a farlo decadere. Dalla fine degli anni Ottanta, dunque, importazioni a go-go.



La Thailand Tobacco Monopoly è oggi seguita, nei numeri, dal gruppo Altria e dalla Reynolds American. Il consumo delle sigarette è altalenante, con voci discordanti sull’aumento/calo dei consumi, a seconda delle fonti partigiane. Quasi tutti sembrano essere d’accordo sul fatto che il 2004, chissà perché, fu un anno di boom per le sigarette, seguito da un calo e, nel 2006, da una crescita del fatturato, grazie all’aumento delle tariffe. Dato inconfutabile, visibile ai più, è che in Tailandia oggi si fuma, ma con un buon rispetto medio per le regole. Nel 2005 venivano contati circa 12 milioni di fumatori su una popolazione totale di 64 milioni. Circa 1,2 milioni erano adolescenti e solo il 2,4% donne. Di donne che fumano, in effetti, non se ne vedono, se non nei go-go bar all’aperto o tra le giovani molto emancipate, che seguono vite da film, all’occidentale. Il buddismo, sullo sfondo, scoraggia il fumo, ma ciononostante diversi bonzi fumano, tanto che in quasi tutti i monasteri sono esposti cartelli con il relativo divieto. E, sempre per rimanere nel campo delle cifre, qualcuno ha calcolato che un tailandese, in media, impiega sette anni per smettere di fumare.
A fronte di un panorama in cui la sigaretta è riconosciuta pericolosa ed eticamente non correttissima, sul mercato è arrivato il sigaro, da alcuni fumatori considerato meno nocivo. Riservato come quasi dappertutto a una specie di élite, il sigaro (e i cigarillos) viene adottato soprattutto da ex fumatori di sigarette pentiti/evolutisi, con capacità di spesa maggiori rispetto ai più. A soddisfare le loro esigenze ci pensa la Siam Havana Cigars, azienda locale specializzata in questa nicchia del mercato. A Bangkok, inoltre, è possibile trovare del tabacco in busta, per il fai-da-te, in uno dei punti vendita della catena Bangkok Wine Cellar, specializzata nella vendita di alcolici. Alcol & fumo, da sempre una delle benedizioni/dannazioni dell’uomo.

Pubblicato su Smoking


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