domenica 3 giugno 2012

BRASILE - LA GORDA


Bia è una cara amica, le voglio molto bene, anche se ascolta musica di superultima (Bon Jovi, Adriano Celentano, gruppi rock tedeschi, Bruno e Marrone, roba da contadini) e in cucina non va oltre l’uovo fritto (male). Sua sorella Lúzia, però, la strangolerei.
Quando Bia mi raccatta al porto di Manaus e mi trascina nella sua casa di São Jorge, un quartiere popolare, accenna solo vagamente ai ma di casa sua.
“Vivo con mia sorella e i suoi due figli. Lei è un po’ picchiatella, ma non morde.”
“E il cane? Lo hai ancora?”, ricordo che mi aveva accennato a un potenziale pericolo acustico.
“Sì, ma è tranquillo. E c’è anche un gatto.”
Cani e bambini, categorie pericolosissime e rumorose che cozzano contro il mio DNA isterico. Per il bene comune, e anche perché all’ospitalità gratuita non si sputa mai in un occhio, sorvolo sulle eventuali (sicure) rogne.
Varcato il portone di casa il cane, Pite (che del pitbull ha solo il nome, in realtà è un vira-lata con un miliardo di pulci e un’otite che non ne vuole sapere di scomparire), mi salta addosso in segno di benvenuto. Abbaiando, va da sé.
La sorella, una ciccia biondiccia sudaticcia, non abbaia, ma emette risolini isterici a ogni passo, forse per l’emozione del nuovo intruso domestico.
“Pietro, piacere.”
“Lúzia, iiiihhhhh, piacere, iihhhh. Benvenuto, iiihhhhhhhh.”
“Potrei avere un bicchiere d’acqua?”
“Iiiiihhh, certo. Iiiihhhh.”
Da un antro dell’appartamento rovente (in casa non tira un filo d’aria) sbucano i figli, un bambino di dodici anni, Ricardo (‘Ricardinho’) e una cosa che se incontrassi per strada osserverei con la dovuta attenzione. Si chiama Estefánia, di anni ufficialmente ne ha quattordici, ma in giro porta un corpo da venticinquenne.
Il viaggio mi ha messo appetito.
“Che si mangia?”
“Sto andando a fare la spesa. Che cosa vuoi che ti prenda?”, domanda ilare Lúcia. Chissà che c’è da ridere, per me la spesa è una cosa serissima.
“Pasta, per favore. La migliore che trovi, di tutte le forme. E del parmigiano.”
La balena ridens torna dopo un’ora con centocinquanta sportine, deve aver comprato mezzo supermercato. La pasta che estrae dal sacco di Babbo Natale, ci avrei scommesso, scemo che sono a fidarmi, non è quotata in borsa. Si tratta di laidiespagueti di quarta e di peggio talharines, pastazza all’uovo, roba fabbricata alla bruttodio che quando la butti in acqua si trasforma in colla da ciabattino. Vera massa italiana, c’è scritto sulla confezione, bugiardi maledetti.
Per cuocerla e trasformarla in una carbonara vagamente passabile mi devo inventare un miracolo fatto di: mezzo litro d’olio versato nell’acqua che bolle; rimescolo continuo del minestrone; potatura dei noduli più inestricabili con cesoie da giardiniere. Nonostante la massima applicazione, il risultato è uno sbobbone annodato, qua e là da tagliare con il coltello. Il ‘parmigiano’ sa di callo di piedi tritato.
“Che bontà.”
“Ottima!”
“Grazie. Domani, però, la spesa la faccio io, eh?”
In casa gli indizi gridano a vuoto. Fuori, davanti al portone, un mercatino coperto delizia l’intero vicinato con brani scelti di Roberto Carlos, diffusi nell’etere tramite altoparlanti a manetta. Di notte il luogo è circondato da montagne di immondizie, particolarmente apprezzate da topi, cani, gatti e da qualche barbone. Inoltre, un’officina meccanica vicina di muro in cui si taglia e piega il ferro per venti ore al giorno (nel più assoluto silenzio, ovvio) completa il quadro della location. All’entrata dell’appartamento, nella sala della tv, confinante con il muro su cui poggia la testiera del mio letto, domina imperscrutabile un ritratto storto di Gesù Nostro Signore, sempre sia lodato. Lúcia, così mi ha spiegato Bia, è un’integralista protestante, separata da un militare (solo un cretino in divisa poteva sposare una così) e, come tale, baby-pensionata. Il graduato, non appena capì che cosa si era messo in casa, decise bene di smammare e lo fece in maniera radicale. Ora è di stanza a Foz do Iguaçu, nel posto più lontano, entro i confini nazionali, che è riuscito a trovare. Lúcia, di conseguenza, ha del gran tempo da perdere, che investe nelle cose trine e invisibili di cui tanto si parla in giro. Organizza simposi religiosi, feste parrocchiali, orgasmi collettivi all’ombra della croce, sempre sia baciata. È la calamita, l’anello di congiunzione, il filo del rosario per tutte le beghine del quartiere, che convoca quotidianamente in adunata e che tratta da sottoposte nel salottino per gli ospiti.
“Le comanda a bacchetta, e se queste non si adeguano alle sue direttive - quali preghiere scegliere per la tale funzione, in quale successione, chi canta che cosa ecc. - s’incazza di brutto”, mi spiega Bia.
Durante i miei lunghi undici giorni di permanenza in casa Barros ho il tempo per sviscerare altri particolari interessanti della testimone della fede, in breve divenuta mia personale nemica di pelle e oggetto di studio delle mie analisi antropologiche. I suoi figli frequentano il collegio militare e ogni mattina si devono svegliare presto per vestire in maniera impeccabile l’uniforme, una specie di divisa delle Giovani Marmotte che va stirata tutti i giorni, pena il plotone di esecuzione. In testa portano un basco di feltro amaranto, attrezzo comodissimo con i quaranta gradi e il 105% di umidità che imperversa là fuori. Se Ricardinho è quasi carino con quella pagliacciata addosso (è ancora troppo piccolo per assumere un tono serio), la quattordiciventicinquenne è tremendamente ridicola con la divisa che le schiaccia le zizze prorompenti. Tutto sembra fuori scala.
Altra conseguenza domestica dell’imprinting da battaglione è che i due rambadolescenti si rivolgono alla madre-comandante con un formalissimo A Senhora (le danno del Lei), anziché con il popolarissimo você (tu). La madre, in effetti, sbraita ordini in continuazione (Estefánia non ciabattare, alza i piedi quando cammini; Ricardinho corri a comprare un chilo di sale, dei fiammiferi, una lampadina che quella vecchia si è fulminata; Estefánia lava i piatti che puzzano; Ricardinho porta fuori le immondizie, che puzzano; Ricardinho, lavati i piedi, che puzzano) e i ragazzini, sbuffando e smadonnando interiormente - glielo si legge in faccia, ma solo quando Lúcia è girata dall’altra parte - ubbidiscono più o meno in silenzio, pena quattro legnate. I comandi di preferenza vengono strepitati all’alba, nel momento in cui i due si preparano per andare a scuola. In pratica un’adunata per l’alzabandiera, con tanto di tromba, quando io, l’ospite sacro, dormo, dormirei, il sonno dei giusti.
Lúcia, sempre stando alle informazioni di corridoio che mi arrivano da Bia, ha cominciato a sciroccare e a parlare con gli angeli dopo che un loro fratello, uno dei cento, è stato ammazzato con un colpo di revolver in testa a São Paulo, qualche anno fa. Il giovane amava le polveri bianche che non servono per fare il bucato, e si era invischiato in qualche giro putrido.
Conseguenza di questa radicalizzazione della religiosità è che Lúcia non esce più di casa (non deve avere più di trenta-trentacinque anni), se non per andare a messa o per fare la spesa, con i risultati noti. La famiglia è socia di un club (indovinate di che tipo? Militare, bravi) dotato di piscine, campi da calcio, tennis e basket, ma i ragazzini, per la proprietà transitiva della rompicoglionaggine della madre, non ci mettono piede da sei mesi. Il club è a mezzo chilometro da casa e il bello è che Lúcia continua a pagare la retta, ma non muove il culone flaccido dalla sala della telenovela per portarvi i figli una domenica che sia una. Durante il carnevale, quattro giorni filati di vacanze e libertà da divise imbecilli e professori peggio, Estefánia e Ricardinho rimangono a marcire in casa. Dove l’aria è molto pesante, la tv imperversa con dosi indecenti di stronzate, Pite abbaia alle mosche e la pazza tenta invano di annientare queste ultime a colpi di insetticida.
“Lúcia, quello è veleno canceroso, non lo dovresti spargere ai quattro venti”, le consiglio con aria di esperto chimico durante uno dei suoi raptus antiecologici, in uno strenuo tentativo di difesa dei miei polmoni e della carbonara.
“Ma è un prodotto così buono, iiihhhh, non fanno che pubblicizzarlo in tv. Non può fare male.”
La matta è categorica in ogni sua opinione, gusto o comando, e i figli, all’età che si ritrovano, stanno prendendo una piega pessima. Ricardinho, vista l’incessante attività fisica (un’ora di nuoto alla settimana) ha le mammelle e la cellulite. Sembra il classico bambino tossico di merendine e chiede alla madre cento volte cento di poter andare al club, ma la gorda, che non lo lascia andare da solo da nessunissima parte, riesce costantemente a inventarsi altrettante scuse. No, perché piove. No, perché fa troppo caldo. Sì, più tardi, quando avrò finito di cucinare. No, mi ha chiamato Dona Augustinha e devo risolvere una questione di chiesa. Sì, dopo la novela. No, adesso ha ricominciato a piovere. No, ora è troppo tardi. Sì, domani.
Durante i quattro giorni di ‘vacanze’ Ricardinho fermenta in casa rimbalzando dalla tv a un vecchio videogame stragiocato, dal bagno al letto, dal cortiletto al mercatino, in missione suprema per la generalessa. Il tutto condito da urla, ordini, adunate, inni e stronzate annesse e connesse.
Estefánia non se la passa meglio. Quando mi becca da solo a tavola o sui fornelli, nell’impossibile tentativo di resuscitare pasta fatta con la terra delle catacombe, mi macina di parole. È una logorroica terminale, capace di tramortire chiunque si trovi nei paraggi a suon di chiacchiere vorticose, annodate, senza capo né coda, saltando di palo in frasca come solo una quattordicenne con ansie adulte, e a cui è saltato il coperchio della timidezza, può fare. I suoi monologhi sono accompagnati da un gesticolare ossessivo e da un continuo sbattere di ciglia, roba schizofrenica che dopo due minuti fa venire il mal di mare a chiunque le presti orecchie e occhi. Le sue infinite ansie, a grandissime linee, possono essere raggruppate nei file ‘letteratura’ (da grande vorrebbe fare la scrittrice, per il momento compone sonetti che impone ai professori, in perenne fuga, e a me, che impegnato con la cottura della colla non posso scappare), ‘fidanzato’ (giapponese, nissei; al momento si trova nel paese di Mishima e delle mutandine usate, però sta per tornare da un momento all’altro; da un momento all’altro il giallo la farà donna - Bia come sempre è l’agenzia stampa da cui attingo questo nettare - e la ricopre di telefonate di ore dal paese dei limoni, non deve essere lui a pagare la bolletta), ‘musica’ (Estefánia ascolta esclusivamente il defunto Renato Russo e il suo ex gruppo Legião Urbana, roba da uccidere di tristezza). A proposito di depressione: a quattordici anni Estefánia ci è già passata più volte, ma in questo momento afferma di esserne uscita, grazie a una collezione di analisti e a una buona dose di psicofarmaci.
“A scuola sono tra le prime dieci per rendimento - mi confida con orgoglio -, ma non ho amici, sembra che io stia antipatica a tutti...”, chissà perché, mi domando.
Un giorno, osservandola con la coda dell’occhio fra le trasparenze della tendina che fa da porta alla sua camera, vedo che si smanovella il segno della croce, seduta sul letto. Sul lenzuolo una distesa di carte.
“È una spiritista, bravissima a fare le carte”, mi confida Bia.
Cazzica.
La cinghialona, oltre a strafarsi di croci e calvari quotidiani (l’immane missione delle telefonate alle parrocchiane, la lotta con i fornelli, i diktat ai figli), si strafà di tv. Non perde una telenovela che sia una, e non volendo passare per una superficiale si è abbonata a un paio di riviste settimanali che approfondiscono scientificamente l’argomento. Vita, morte, herpes e miracoli degli attori, trame delle novelas di punta, programmazione dettagliata al minuto secondo, poster con la diva/o della settimana.
Siccome sei o sette ore al giorno di telenovela sono pochine, Lúcia le integra con la trasmissione a cinque stelle del momento, che sta spopolando tra i figli di papà paulisti e ifavelados di mezzo paese, quelli che vorrebbero ma non possono: Big Brother Brasil. Ebbene sì, il maledetto Grande Fratello, anche nel paese di Jorge Amado e di Caetano Veloso (se è per questo, anni fa i brasiliani si erano pure beccati la versione locale diColpo Grosso, per fortuna senza Umberto Smaila). Mezza dozzina di sfigati fintamente rinchiusi in un appartamento di lusso, con piscina e salotti in pelle Aiazzone, a simulare di avere qualcosa da dire sotto i tatuaggi e le bandane e i piercing, a fingere di avere uno scopo nella vita. E, soprattutto, a fingere di non avere una telecamera puntata addosso. Occhiali neri a specchio mentre preparano un caffelatte e noia primomondista a sfare, in tutto e per tutto identici agli sfigati nostrani, solo qualcuno un po’ più abbronzato. Altre differenze, rispetto alla colonia Italia, è che nella colonia Brasile i fratelli di cachet sono arrivati un po’ dopo, e i loro discorsi così urbani e la loro piscina così chic stridono paurosamente con le favelas del mondo di fuori. Le balene, nel frattempo, sbavano invidia. La merda fratella brasileira è una bolla di sapone montata ad arte dai media, né più né meno che da no. I crociati dell’informazione sviscerano ogni particolare dei ‘rinchiusi’, li trasformano in eroi/martiri, li fanno vincere miliardi, scatenano sondaggi di opinione su “Con chi tromberà Dhomini? Con la giapponese Sheila o con la bionda Viviane??”, e danno i risultati quotidiani della lotta per il posto in salotto come se fosse una notizia al telegiornale. Le riviste, nel frattempo, ingolfano le pagine con le loro facciazze e indicono premi-fedeltà per chi segue la trasmissione. Il popolino partecipa, suda, si appassiona, fa il tifo, vota (dodici milioni di telefonate per votare il re dei cretini durante la quarta edizione del Big Brother Brasil), finge di dimenticarsi la sfiga quotidiana dei più (loro senza telecamera, però). Ma il bello del Brasile è che è un paese davvero ‘globale’, nel senso che vi si trova di tutto, il peggio del peggio e il meglio del meglio, basta cercare. Spesso i brasiliani hanno la dote dell’autoironia (non sempre, a dire il vero). Tanto che qualche tempo fa, sull’onda del suc/cesso, il BBB ha ispirato Sérgio Mallandro, un attore di serie B che, in quell’occasione, ha rivelato doti ammirevoli. Il Brasile si è piegato in quattro dal ridere con il suo “BBB dos pobres”, il “Grande Fratello dei poveri”, più in linea con la massa della popolazione: piscina gonfiabile di due metri di diametro, tavoli e sedie di plastica made in China, letti a castello, risse tra i partecipanti per questioni di sopravvivenza (cibo scarso, posto letto/tavola, fila in bagno). 
Sempre per rimanere in argomento ‘buon gusto’, Lúcia adora un cantante locale (non ricordo il nome, e anche se lo ricordassi non lo citerei), l’ennesimo semidio del brega.
“Ha una voce così possente...”
L’equazione, dunque, è:

voce + collo da toro (Pappalardo, potremmo dire) = buona musica

L’opera di evangelizzazione di Lúcia supera i confini domestici e quelli delle chiesette rionali. Al momento il compito più arduo della missionaria è di ricondurre sulla retta via, eventualmente anche su quella di un matrimonio (non appena la separazione dal militare potrà essere trasformata in divorzio, ma la pensione potrebbe risentirne), un tal Saverio, narcotrafficante di Roma, in vacanza coatta nella galera di Manaus per tre anni. Beccato qualche anno fa assieme al compare rumeno mentre portava a spasso una valigia di cocaina (grazie alla soffiata dello stesso pusher), Saverio soffre di claustrofobia e non se la deve passare benissimo dietro le sbarre, tant’è che una volta alla settimana sembra sopportare di buon grado le menate religiose della folle. Sarà per il potere della Parola del Signore, oppure per quello delle donne (eppure in prigione le zoccole possono essere ordinate su un catalogo con tanto di foto; quindi: o Saverio è cieco o, realmente, si è messo sulla retta via smarrita), il romano, che in Italia aveva una rispettabile attività di tenutario di bordello/rifornitore di narici, ora deve elargire bustarelle a destra e a manca ai secondini per poter dormire su una brandina nei corridoi, anziché sul pavimento e fra pareti troppo strette. Lo stesso lubrificante è usato per altri mille favori e favorucci, e i portinai della galera lo hanno soprannominato ‘Itália’, consapevoli del fatto che un trafficante del primeiro mundo ha sempre qualche real da devolvere. Del socio rumeno, povero straccione sovietico privo di valute interessanti, dopo l’arresto si sono perse le tracce in qualche cella di un paesino di provincia, saecula saeculorum. Lúcia, nel frattempo, si è innamorata degli occhioni azzurri di Saverio e ogni settimana gli porta scatoloni zeppi di riviste religiose. Chissà che fine fanno, forse in galera hanno il caminetto o scarseggia la carta igienica.
La febbre da divinità, purtroppo, non ha contagiato solo la povera grassarda, che conclude ogni telefonata (durata minima mezz’ora, bollette da grande casa editrice newyorkese) con un profetico Fica com Deus! In italiano questa potrebbe apparentemente suonare come una bestemmia, ma in portoghese ha un significato ben più innocente (fica = rimani, stai).
Nella piazzetta che si trova di fronte al porto di Manaus un demente armato di microfono, ombrello contro il calore atroce, amplificatore e casse, evidentemente autorizzato a insediarsi lì da qualcuno con il cervello ancor più cotto del suo, sbraita quotidianamente insulsità divine, per le sue buone otto ore lavorative, festivi inclusi.
“Le donne devono portare i capelli lunghi, gli uomini corti. È scritto nella Bibbia. Che Dio benedica la seleção!”, testuali parole, in questo esatto ordine, udite un giorno mentre passavo da quelle parti.
Questa forma nazifascista di imporre il proprio credo alle orecchie stuprate dei passanti (chi gli concede di allacciare la spina dell’amplificatore deve ritenere la religione, questa religione, un bene di utilità pubblica) è ripreso pari pari dai predicatori evangelici ambulanti che imperversano alle fermate degli autobus, soprattutto durante i giorni del carnevale, considerati di massima degenerazione.
Tu sei lì in fila che, sbuffando, aspetti l’autobus che non arriva mai, fra nubi di smog, polvere, caldo da altoforno e umidità da foresta pluviale. E di fianco ti si piazza un nanetto invasato, vestito da bancario, sudato fradicio e con gli occhi fuori dalle orbite che, armato di bibbia fra le mani, va su e giù lungo la fila come un topo in gabbia. Sputazza e ti urla nelle orecchie che sei un peccatore, che se non ti pentirai in fretta, se non la smetterai di errare, di fare la corte alle donne, arderai tra le fiamme dell’inferno. Ma le uniche fiamme che, al momento, senti sono quelle che partono dai timpani e passano per la zona inguinale, forza combustibile che involontariamente ti fa piegare le dita delle mani a pugno ogni volta che l’apostolo ti passa vicino, facendoti ardere di desiderio di accarezzargli la faccia. Qualcuno dei passanti sorride di fronte a tanta convinzione, mentre altri, con magliette che riportano slogan quali Fé em DeusSoldado de Deus o Deus 100%, abbassano lo sguardo e assumono un’aria contrita. Tu ti chiedi se sia più nazi la tua voglia di spappolarlo sulla pubblica via o il suo modo osceno di obbligarti ad ascoltare la Verità.
Il pazzo strabuzza gli occhi, suda, le vene del collo (sue e tue) impazzano. Ti indica, sì, proprio tu, schifoso peccatore. Le nocche delle tue mani sono tese e bianche, partirai con un gancio o con un diretto? L’autobus, la salvezza in Terra per gli uomini di buona volontà, ti porta via ed evita la strage e la gattabuia in compagnia di Saverio. Rischieresti di beccarti Lúcia pure lì.
Pite abbaia alle mosche, soprattutto di notte, quando diventa ipersensibile al minimo rumore: gatti che lottano/trombano sul tetto, un ubriaco che rantola contro il portone metallico, qualche topo grande come un tacchino che razzola fra il pattume, il vigilante del mercato che passa in bicicletta e soffia nel fischietto, per avvisare il vicinato (svegliandolo) che tutto va bene. Ciò sarebbe positivo, un buon cane da guardia è un tesoro prezioso, se non fosse che la bestia ulula e latra sotto la mia finestra. Mi sveglio, smadonno copiosamente, riprendo lentamente sonno tra il calore e gli sciami di zanzare, ed ecco che il filho de puta abbaia di nuovo. Sono le tre di notte, qualcuno mi dia un taxi e un albergo con i materassi alle pareti.
Ormai ho preso di mira Lúcia, mi sono convinto che sia lei la responsabile di tutto il marcio di Danimarca, oltre che di questa casa. Anche l’indolenza autolesiva di Bia ha le sue responsabilità. Se fossi io il padrone di casa, come lei è, manderei tutti a dormire al club militare, ma non mi hanno ancora dato le chiavi dell’appartamento.
Con la scusa che il cane, costantemente smanioso di fiondarsi in strada per sgranchirsi le gambe e l’apparato riproduttivo, se liberato tornerebbe ricoperto di pulci e zecche, roba che peraltro ha già in triplice copia, Lúcia non lo fa uscire mai. Stessa ricetta usata con i figli, risultati sulla psiche delle vittime molto simili. Se reggo fino all’undicesimo giorno, quando prenderò un aereo che mi porterà via, via di qui, è solo perché Bia fa di tutto per aggradarmi. Però:
“Ma comeccazzo fai a vivere con ‘sta ciste di sorella???”, mi/le domando spesso.
“Hai ragione, è insopportabile, ma non riesco a vivere da sola. Per lavoro sono spesso fuori, per cui non mi disturba così tanto. Quando torno mi fa compagnia. È stabile, nel senso che da qui non la smuove nessuno, nemmeno con una ruspa. E poi, per fortuna, non ho orecchie sensibili come le tue. A fine anno, comunque, dovrebbe scavarsi di torno e, se devo essere sincera, non vedo l’ora. Potrò ristrutturare la casa, godere un po’ di privacy.”
Gli ultimi giorni a casa Barros sono un calvario. Tra me e la cinghiala ormai è guerra aperta, non mi fa più il bucato e ci siamo tolti il saluto, soprattutto dopo che ha dirottato da una vicina il barattolo di Nescau, il Nesquick brasiliano, che IO avevo comprato. “Per fare una torta”, mi ha spiegato, anche se poi di questa famosa torta non ho visto manco le briciole.
La ciliegina sulla torta, la degusto la sera della mia partenza. La grassa, mentre faceva le pulizie domestiche, ha buttato nelle immondizie un mio cd di O Rappa. Per fortuna riesco a recuperarlo, ricoperto da bucce di mango e foglie d’insalata.
“Ah, era tuo? Scusa, sai. Non mi piaceva, e se i bambini ascoltano quella musica, con quelle parole così sacrileghe, chissà cosa diventano... Iiiihhhhh.”
“Bia, via, via di qui. O la strozzo.”
“Andiamo.”
Con l’umore nero pece faccio i bagagli in quattro e quattr’otto, trascino Bia fuori da questa galleria degli orrori, saluto a medio teso la platea che presidia la sala della tv.
“Dove andate?”, ci domanda sorpresa l’obesa.
“Sul primo aereo in partenza”, rispondo tutto acido.
Fica com Deus”, mi fa mentre sgrana il rosario.

da Viva Brasil!





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