martedì 4 settembre 2012

ECUDOR - SETTEMBRE, MESE DI FESTE


Otavalo: è ora di Yamor

Circa 110 km a nord di Quito, capitale dell’Ecuador, si trova la cittadina di Otavalo, nota per la comunità indigena che la abita. Situata nel cuore della provincia di Imbabura, è raggiungibile in un paio d’ore abbondanti d’autobus dalla capitale, percorrendo una tortuosa strada di collina. Gli otavaleños sono famosi in tutto l’Ecuador - ma anche all’estero - per il loro artigianato, esportato e reperibile anche sulle bancarelle europee. La cittadina è frequentata dai commercianti e dagli importatori occidentali, che rivendono l’artigianato locale, acquistato su commissione e in grandi quantità, negli Stati Uniti o in Europa. La fortuna di questo commercio nacque negli anni Sessanta, con l’arrivo dei turisti: da allora, gli otavaleños si arricchirono, e oggi costituiscono una delle comunità indigene più benestanti dell’intera America Latina (spesso invidiati, per questo motivo, dalle altre etnie del paese). Il pezzo forte del loro artigianato sono i tessuti, prodotti in grandi quantità in piccole fabbriche artigianali e solitamente rivenduti ai grossisti. Tra gli articoli più richiesti e di maggiori dimensioni spiccano gli arazzi (per i quali sono indispensabili almeno due settimane di lavoro) e i tappeti - che spesso riprendono i disegni messicani o quelli delle fajas (cinture intessute) di Salasaca e Cañar -, ma anche gli abiti (maglioni, guanti, ponchos), coperte, zaini, articoli in pelle e cappelli. Il locale Istituto Otavaleño de Antropologìa, che sprona la comunità locale a valorizzare la propria cultura, in questi anni ha spinto gli artigiani a riprodurre solo motivi autoctoni. I disegni spesso hanno un significato mitologico: le scimmie e le rane, per esempio, indicano fecondità e benessere (le rane anche nel vicino Perù), mentre i ragni e le lucertole sono sinonimo di protezione. Questi motivi, riportati su ricami, erano usati già durante la colonizzazione castigliana (Otavalo fu fondata dagli spagnoli), in particolar modo lungo i bordi delle sottane e sulle camicie delle donne. La grande occasione della settimana per osservare tutte queste merci è il sabato, quando si tiene - fin dalle prime luci dell’alba (già alle quattro arrivano i primi cargadores, facchini) - la feria sabatina, il mercato più importante. Anche il mercoledì vede una certa affluenza, mentre permanente è il mercato di dimensioni ridotte allestito appositamente per i turisti, in afflusso costante. Di sabato arrivano gli indios di tutta la regione, per vendere i loro manufatti, nella centralissima Plaza Centenario, soprannominata Plaza de los Ponchos. Il posto per esporre le merci in questa piazza lastricata è piuttosto ridotto, gli affari assicurati, e la concorrenza tra commercianti molto alta: per questi motivi, ogni tanto, la polizia fa delle retate, sgomberando il luogo dagli abusivi (solitamente argentini o di altri paesi latinoamericani). Oltre alla piazza del mercato, l’artigianato è reperibile anche nei numerosi negozi delle vie circostanti, cresciuti come funghi dopo l’arrivo del turismo. Bisogna sottolineare, però, come non tutti i manufatti siano tali: la produzione su larga scala, motivata anche dalle esportazioni, ha fatto sì che oggi si usino anche tecniche industriali e materiali artificiali (fibre in anilina o acrilico), soprattutto per i maglioni. Tra le grandi bancarelle, qua e là, si trovano anche banchetti più piccoli, dove sono esposti gli articoli solitamente acquistati dagli stessi indios, in quanto facenti parte dell’abito tradizionale: scarpe simili a espadrillas, collane dorate dai molti giri (ma in materiale plastico: sono le hualcas), grandi cappelli (simili al Panama), camicie in pizzo ricamato per le donne e le bambine. Gli otavaleños, in effetti, sono molto tradizionalisti in materia di abbigliamento, e tutti, fin da piccoli, indossano una specie di ‘uniforme’ che li contraddistingue. Le donne, oltre alle collane e alle camicie ricamate, spesso decorate con elementi floreali, portano lunghe gonne di colore blu scuro e, a volte, usano uno dei tre scialli (fachalinas) come cappello, dopo averlo annodato all’uopo. Di solito, però, sia le donne sia gli uomini indossano un cappello di feltro scuro, così come i bambini. Tutti i maschi, poi, fin dalla più tenera età, raccolgono i capelli lisci in una lunga treccia, assai curata.









Non solo artigianato
Gli otavaleños non sono noti solo come abili artigiani e commercianti. Un altro aspetto fondamentale della loro cultura è quello della musica tradizionale, anch’essa esportata (è facile vedere qualche gruppo otavaleño anche nelle zone pedonali delle nostre città come, per esempio, a Ferrara, durante l’annuale Festival dei Buskers). La musica tradizionale otavaleña si basa soprattutto sui fiati e sugli strumenti a corda (come il chitarrino), e un’ottima occasione per assistere a spettacoli dal vivo è il Festival di Yamor, che si tiene ogni anno all’inizio di settembre. Durante le esibizioni le donne occupano un ruolo centrale: sono loro che eseguono in coro i canti, accompagnati da un sibilo ammaliante e unico nel genere. Tra i tanti gruppi del luogo, tutti con nomi indigeni (quechua, la lingua degli otavaleños), troviamo i Tsahuarhah e gli Handa-Manachi (di questi ultimi è da non perdere, per chi riuscisse a reperirlo, il disco Runa Llacta). Durante la festa, oltre agli spettacoli musicali, si tiene una gara podistica (è curioso vedere gli indios che vi partecipano, con tanto di treccia e numero pettorale), e i venditori ambulanti giungono da tutta la regione. Un’altra festa interessante è quella dedicata a San Juan, che si tiene dal 24 al 29 di giugno: allora si svolgono regate sul vicino lago San Pablo e alcune corride.
Anche la cucina occupa un posto importante nella cultura otavaleña. Tra i piatti locali, oltre al già citato yamor (una variante della chicha, la birra di mais che solitamente accompagna i piatti di carne durante le feste), troviamo lo llapingacho (frittata con le patate) e lo yahuarlocro (zuppa al sangue). Sempre in città, infine, non mancate il Parco Rumiñahui, nella piazza omonima, vero cuore della città, a breve distanza dal fiume El Tejar. Qui spicca il grande busto in pietra dedicato a Rumiñahui, il valoroso condottiero del re inca Atahualpa. A Otavalo, nel 1533, questo capo guerriero subì la sconfitta definitiva per mano degli spagnoli, guidati dal capitano Sebastiàn de Benalcàzar (al seguito di Pizarro), forte di undicimila indios canaris. Nonostante la sconfitta, venne mitizzato dalle etnie successive come simbolo del valore e della cultura indigena.







I dintorni di Otavalo
Al mercato del sabato giungono indios provenienti dai tanti villaggi limitrofi, come Peguche, Agato, Lluman ed El Chota. Tutta la regione che circonda la cittadina è estremamente interessante, e molti sono gli stranieri che, desiderosi di una conoscenza più approfondita e autentica della comunità indigena (Otavalo è, a volte, zeppa di turisti), preferiscono soggiornare nei villaggi della bella regione lagunare limitrofa. A breve distanza, infatti, si trovano numerosi laghi e due vulcani. Il lago di San Pablo è quello più prossimo alla città (lo si raggiunge rapidamente in autobus), situato alla base dell’imponente vulcano Imbabura, lo stesso che dà nome alla provincia. Il lago, originariamente, si chiamava Imbacocha (o Chicapán), ma la colonizzazione spagnola - con il cattolicesimo di importazione, assorbito dagli otavaleños - ne cambiò definitivamente il nome. È il più ampio della provincia, e ogni mattina all’alba gli indios del luogo vi pescano a bordo di canoe fatte con la paglia intrecciata. L’altro vulcano della zona è il Cotacachi (4939 m.), estinto e in gran parte eroso. Alla sua base si trova il lago Cuicocha (‘lago dei porcellini d’india’, in quechua), il più bello della regione, formatosi dopo che le nevi del vulcano si sciolsero. L’ultima eruzione del Cotacachi formò il cratere laterale Cuicocha (3100 m.), mentre su un lato del vulcano si trova il monte Yanaurcu (‘monte nero’) che, secondo una leggenda, sarebbe il frutto dell’amore - una specie di figlio - tra l’Imbabura e il Cotacachi. Quest’ultimo vulcano è prossimo alla cittadina omonima, nota per l’artigianato in pelle. Entro la superficie del lago Cuicocha, inoltre, si possono notare due isole, vulcani secondari gemmati da quello principale. Un’ultima attrazione della zona - raggiungibile solo in fuoristrada - sono le lagune di Mojanda, circa 16 km a sud di Otavalo. Formate dall’antico ed estinto vulcano omonimo, hanno tutte nomi differenti: la più alta (a 3700 m.) si chiama Yanacocha (‘nera’), e sulla sua superficie si riflette il monte Yanaurcu. A breve distanza si trova la Huarmicocha (o Chica, ‘della donna’) mentre, più a nord, la Grande (o Caricocha, ‘dell’uomo’), profonda 120 m., occupa la caldera (conca) del vecchio vulcano.







Machala, la festa della Banana

La banana è la seconda voce (14%) delle esportazioni ecuadoriane, dopo il petrolio, l’oro nero che provoca continue scaramucce armate con il vicino e odiato Perù. Nella selva amazzonica che si trova al confine tra i due paesi, nella zona del Rio Napo, infatti, esiste uno dei giacimenti più ricchi del Sud America, sfruttato fin dal 1972. La banana è coltivata quasi ovunque lungo la costa sul Pacifico, fino alle prime propaggini della sierra andina, soprattutto nel Sud - dove il maggior centro di produzione è la città di Machala - e nel Nord - nella regione di Esmeraldas, subito sotto la Colombia. A livello mondiale l’Ecuador occupa il quarto posto nella produzione delle banane. Il ciclo produttivo dura tutto l’anno, senza interruzioni, ma il periodo più fertile corrisponde al mese di ottobre.
Machala, città situata 670 km a sud di Quito e 207 da Guayaquil - principale centro di produzione delle banane, esportate in tutto il mondo (Italia compresa) dal vicino porto di Puerto Bolívar - è circondata da bananeti che si stendono a perdita d’occhio, e i proprietari terrieri della zona hanno accumulato grandi capitali con questa coltura. Machala, di conseguenza, è una città relativamente ricca - rispetto a molte altre del paese -, e tutta la provincia di El Oro, di cui è la capitale, denota un certo benessere. Grandi banche sono sorte in questa regione grazie ai capitali accumulati con la banana (alcune di loro usano il casco di banane come logo), e Puerto Bolívar, la cittadina portuale dalla quale viene esportato il frutto, situata ad appena 5 km da Machala, si è rapidamente sviluppata in questi ultimi anni. La banana, vista la sua esuberante presenza in ogni dove, e data la sua economicità, è divenuta uno degli alimenti principali dell’Ecuador, non solo come frutto da consumarsi a fine pasto. Il platano, per esempio, è un tipo di banana commestibile solo dopo essere stato cucinato (lo ritroviamo anche nella cucina di Santo Domingo e di altri paesi latinoamericani). Usato perlopiù come contorno, il platano - che nulla ha a che vedere con l’albero omonimo - viene spesso accostato ad altri alimenti, sostituendo frequentemente la patata (comunque presente nella cucina ecuadoriana). Si possono consumare, dunque, brodo di banana, banana alla griglia, banana fritta (in tranci o a fettine, come le patatine), e il diffusissimo patacón, una specie di polpetta fatta di carne macinata e banana schiacciate e mescolate con le mani, quindi fritta.






Ma la banana, in Ecuador, oltre che un’importante voce dell’economia e dell’alimentazione, rappresenta anche un elemento della cultura popolare. Ogni anno, infatti, tra il 21 e il 25 settembre, a Machala si tiene la Festa Mondiale del Banano, in concomitanza alla fiera omonima. È questa una vivace occasione per far festa - l’alcol scorre a fiumi e si balla Salsa fino alle ore piccole -, ma anche una buona opportunità per sostenere e promuovere la già florida industria bananiera. Il nazionalismo si mescola all’economia, la musica al folclore, e la kermesse procede per diversi giorni tra parate militari ed esposizioni di ‘campioni’ di produzione. Per le strade della città sfilano i gruppi più disparati, tutti - rigorosamente - a suon di Salsa: raccoglitori di banane, scolaresche, bambini in costume, majorette, militari, ballerine e persino i pompieri, in tuta d’amianto, in un periodo dell’anno in cui la temperatura si aggira sui trenta gradi. Per giorni e giorni, al ritmo delle bande locali o della musica da discoteca - propagata attraverso gigantesche casse acustiche sparse un po’ dovunque: appese sugli alberi o sul retro dei pickup -, sempre al massimo del volume, le rappresentanze di tutto ciò che può essere rappresentato (collegi, associazioni, club, organizzazioni militari) sfilano ininterrottamente su e giù per la piazza principale, tra le grida di gioia degli spettatori, soprattutto dei bambini. La polizia, formando una catena umana che fa da transenna, impedisce agli spettatori di tuffarsi nei cortei e seguire le sfilate. Un oratore, in posa plastica dal balcone del municipio, circondato da ‘personalità’ assortite, desiderose di palcoscenico, esalta tutto e tutti attraverso un microfono collegato ad altoparlanti: la banana, Machala, la Patria e i suoi gloriosi bombeiros, i pompieri. La folla, eccitata, applaude a ogni punto esclamativo, cioè sempre. In tale occasione non può mancare l’annuale concorso per la carica di Regina Mondiale del Banano, un premio molto ambito in questa regione. Le candidate arrivano da quasi tutta l’America Latina e, nonostante siano quasi sempre più attraenti della concorrente ecuadoriana, quest’ultima vince il concorso dieci volte su dieci. Le selezioni (una pura formalità) si tengono nell’Hotel Rizzo, il più prestigioso della città, e nei giorni che precedono l’incoronazione la stampa locale e nazionale ha un’attività frenetica: finge di fare pronostici e di cercare di capire quale tra le concorrenti - in base al curriculum - sarà eletta. Il giorno della premiazione l’intera prima pagina dei quotidiani - come El Universo, stampato a Guyaquil - è dedicata a lei, con titoli cubitali del tipo Ecuatoriana ganó Reinado del Banano.




La fiera che si tiene contemporaneamente è ospitata in un parco apposito, diviso in stand espositivi e luoghi di svago (palcoscenico per i gruppi musicali, pista da ballo). La fiera ospita tutti i principali produttori di banane - tra cui diverse cooperative gestite dai militari -, e il prodotto viene da questi definito, molto umilmente, come ‘il migliore del mondo’. Interessanti esposizioni, oltre a quelle dei ‘campioni’ di produzione, sono quelle sulle malattie e i rimedi per combatterle che colpiscono i frutti e sulle diverse tecniche di raccolta e lavorazione. La banana, d’altronde, è un elemento essenziale dell’economia locale, tant’è che viene giornalmente quotata in borsa e sui giornali. Alla fiera, dunque, si stipulano affari e accordi tra produttori, oltre ad una corposa opera pubblicitaria.
Ma la Festa del Banano è anche una grande occasione per divertirsi. Fuori del parco della fiera abbondano i venditori ambulanti che attirano i bambini e gli adulti con giochi come il ‘tiro al chewing-gum’: chi, con un fucilino ad aria compressa colpisce il pacchetto di gomme da masticare disposto su un tabellone, lo vince (anche se ormai bucato). Anche i venditori di zucchero filato e di palloncini, i parrucchieri da marciapiedi, i truffatori delle lotterie truccate (tipo gioco delle tre carte), i giostrai itineranti e i ristorantini ambulanti fanno buoni affari. All’interno della fiera il clou del divertimento scatta al tramonto, quando le orchestre iniziano a suonare ininterrottamente, e i visitatori, zuppi di trago - l’economicissimo alcol ricavato dalla canna da zucchero, vera droga nazionale -, si scatenano in balli forsennati. Solo allora la fiesta, in onore alla banana, è davvero degna di tale nome.

pubblicato su Frigidaire








Nessun commento:

Posta un commento