martedì 4 settembre 2012

FILIPPINE - BANAWE


Nel nord di Luzon, la più grande isola dell’arcipelago filippino, si trova la regione della Mountain Province, nota da secoli per le sue risaie, da molti definite come ‘l’ottava meraviglia del mondo’. Attorno alla cittadina di Banawe, situata nel cuore di questa regione, vive la popolazione degli Ifugao - il termine significa ‘abitanti della terra riconosciuta’ -, disseminata tra i villaggi attraverso della cordigliera centrale. Le risaie di Banawe, dette ‘scale del cielo’, costituiscono una vera e propria opera di ingegneria agraria, realizzata nel corso dei secoli - si ritiene che le prime risalgano al periodo tra il 200 a.C. e il 100 d.C. - utilizzando esclusivamente attrezzi primitivi.
Soltanto in Asia le risaie hanno raggiunto un tale grado di ampiezza - oltre a quelle del Madagascar - e di perfezione tecnica: si è calcolato che i muretti di bordatura di Banawe, messi l’uno accanto all’altro, raggiungerebbero una lunghezza di 19.000 chilometri, pari a circa metà della circonferenza terrestre. Le terrazze, così come sono disposte, ricoprono una superficie di circa 50.000 ettari, tutti produttivi e dotati di canali di scolo, che portano l’acqua necessaria per la coltura dalle cime al livello più basso. In questa regione piove quasi ogni giorno, soprattutto fra giugno e ottobre, quando il monsone di sud-ovest investe la maggior parte dell’arcipelago.
Il tasso di umidità dell’ambiente supera l’80% e, unito al calore, produce una costante atmosfera da serra. La natura, di conseguenza, non può che essere esuberante: circa novecento sono le specie di orchidee che crescono spontaneamente. Bambù, ibisco, champacos, sampanguitas (il fiore nazionale filippino), felci giganti e gigli crescono un po’ dovunque.




Si dice che gli Ifugao abbiano iniziato a costruire risaie duemila anni addietro, e non è difficile crederlo: dotati esclusivamente di strumenti rudimentali - bastoni appuntiti o vanghe di legno -, ancor oggi scavano con la stessa tecnica degli antenati. Si procede dall’alto verso il basso, costruendo prima le terrazze superiori, quindi scendendo a completare le inferiori. La tecnica contraria - dal basso verso l’alto - viene usata solo quando si deve scavare su un pendio piuttosto friabile: prima si mette a nudo la roccia sotto il terreno per costruire una base solida (che viene puntellata con tronchi d’albero), quindi si procede alla costruzione della terrazza vera e propria, fatta di terreno coltivabile.
Le risaie richiedono cure costanti, soprattutto in novembre - che qui prende il nome di Chattu -, quando termina la stagione delle piogge e comincia l’epoca della semina. Gli uomini si spostano nelle risaie con passo agile e leggero, sui muretti di terra solida, saltando rapidamente dall’uno all’altro: a loro spetta il lavoro mattutino, mentre alle donne sarà riservato quello pomeridiano.
Gli spagnoli, che nel XVI secolo governarono ed evangelizzarono le isole, non essendo mai riusciti ad avvicinare a lungo queste popolazioni, le chiamarono tutte con il termine di Igorot, verosimilmente di origine tagalog (la principale lingua filippina), che significa ‘popoli delle montagne’. Gli autoctoni si distinguono in base alla zona di influenza del villaggio, poiché ciascuna etnia di questa zona non ha mai costituito vere e proprie tribù, ma piuttosto una vaga confederazione di villaggi con una lingua comune.
In tempi non molto lontani gli Ifugao erano temibili cacciatori di teste. Qualcuno afferma che ancor oggi una testa può rotolare ‘accidentalmente’ dall’alto di queste montagne fin sul fondo della valle. Davanti ad alcune case si trovano le scansie sulle quali venivano esibite le teste dei nemici uccisi. La dimora Ifugao, vista dall’esterno, sembra una piccola piramide posta su quattro palafitte: alla sommità di ognuna un largo disco di legno trattiene i roditori (specialmente i ratti), che fra queste montagne sono molto numerosi. Sotto il tetto piramidale di paglia c’è un’unica stanza di circa tre metri per lato: vi si accede per mezzo di una scaletta, che viene ritirata durante la notte o quando l’inquilino è assente. All’interno si trova una stuoia vicino al focolare, delimitato da piccole pietre e da un quadrato di legno; le pareti sono annerite: poiché non ci sono aperture sul tetto e il fumo della cucina resta all’interno. Lungo due lati vi sono delle mensole su cui si ammassano gli oggetti di casa: sacchi di riso, stoffa, paglia, legno, qualche utensile e i bulul: idoli di legno, ritenuti i depositari delle forze soprannaturali degli antenati.




La città di Banawe ha subito, in questi ultimi anni, un grande stravolgimento culturale, economico ed architettonico, grazie all’arrivo sempre più massiccio del turismo. Molte sono le pensioncine che, per pochi dollari, offrono ospitalità ai visitatori e, per i più bisognosi di comfort, c’è persino il Banawe Hotel, gestito dal governo: dotato di piscina, vino ‘italiano’ (si fa per dire) e danze ‘tipiche’ per i turisti, il tutto decisamente fuori luogo. Da Banawe è possibile organizzare trekking di diversa durata nelle vicinanze. Una delle mete più sfruttate e affascinanti è quella verso il villaggio di Batad, una perla di architettura agraria inghiottita in un enorme anfiteatro di terrazze di riso. Il minuscolo villaggio è raggiungibile esclusivamente a piedi - almeno per l’ultimo tratto -, e si trova a dodici chilometri da Banawe. La cosiddetta ‘piazza’ del villaggio, dove c’è una piccola chiesa e una scuola, è raggiungibile discendendo lungo i tanti muretti delle risaie, magari aiutati dai bambini che si offrono come guide (il loro insistente «I guide You!», ripetuto cento volte, anche se volete fare da soli, vi accompagnerà per tutto il tragitto), esperti conoscitori del tragitto più breve. L’escursione è realizzabile, per i camminatori più allenati, in una sola giornata; altrimenti non resta che passare la notte nell’unica, essenziale pensioncina di Batad.
Subito sotto Banawe, scendendo lungo una scalinata che parte dal Banawe Hotel, si può invece raggiungere l’altro piccolissimo villaggio di Tam-An, dove i pochi Ifugao rimasti nelle immediate vicinanze della città vivono fabbricando artigianato in legno e ossa. Tra i loro articoli più venduti ai turisti di passaggio spiccano il tapis - stoffa a righe colorate - e i bolos, grandi coltelli con il manico di legno intarsiato.
Più distante da Banawe - passando prima per il capoluogo regionale di Bontoc, circa 50 chilometri a sud-est - si raggiunge, esclusivamente in jeepney (il colorato mezzo di trasporto pubblico più usato dai filippini), il villaggio di Sagada, centro dell’area Bontoc, un’altra delle popolazioni della Mountain Province. È questa una zona incantevole, ricoperta di fitta boscaglia - numerose le conifere -, famosa per le cave in cui i Bontoc nascondono i loro morti, adagiati in di casse di legno dissotterrate e accatastate l’una sull’altra. Le cave di Matangkib, di Sugong e di Lumiang sono le più note e vicine al centro abitato. La zona è anche nota per le sue piantagioni di marijuana - illegali ma tollerate da tutti - e per la guerriglia, quasi endemica su queste montagne, dell’MPA, l’esercito ribelle filocomunista.





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