martedì 1 gennaio 2013

EGITTO - MISSIONE IMPOSSIBILE


Tempo fa il Grande Capo mi convocò in sede, nel cuore della Città da bere, per affidarmi un’alta missione. Quando una sua sottoposta, qualche giorno prima, mi aveva chiamato per fissare l’incontro, era stata piuttosto vaga - Tre mesi a Los Angeles. Ti va? -, io avevo risposto Sì al volo, ovvio, ma i conti avevano subito cominciato a non tornarmi. Innanzitutto perché quello del ‘residente all’estero’ è un incarico solitamente affidato ai pezzi grossi, agli interni dell’Azienda o ai tour leader di provate fiducia/esperienza, e io ero solo un accompagnatore turistico che lavorava per loro, occasionalmente, da un paio di anni. Un esterno, sul quale io stesso non avrei scommesso per risolvere le rogne grosse.
  Secondo e più profondo motivo di dubbio era che un anno prima ero già riuscito a deludere il Grande Capo, e dunque pensavo che dopo l’episodio delle navi avesse incenerito il mio curriculum. In quell’occasione la missione speciale del cazzo, come se non fosse già del cazzo il lavoro di routine - scarrozzare qua e là per l’Egitto torme di turisti imbecilli -, era stata quella di investigare (fare la spia) su diverse navi da crociera che avrebbero dovuto lavorare per l’Azienda. ‘Indagine conoscitiva’ che mi aveva obbligato ad abbandonare per qualche giorno il gruppone nelle avidi mani delle guide locali - Pappa & Ciccia con i negozianti specializzati nell’appioppare a caro prezzo papiri un-tanto-al-chilo e piramidi di plastica made in Taiwan a coglioni di Lecco e Benevento -, per andare a ficcanasare su una nave già funzionante e su un’altra in costruzione. Se nel primo caso mi ero dimostrato scrupoloso ed efficiente - avevo ispezionato bagni, letti e la piscina sul tetto con puntigliosità maniacale -, nel secondo avevo toppato, ma non per colpa mia. La colpa era di quel cretino di Amin, il corrispondente locale dell’Azienda. La sua agenzia turistica era situata in un quartiere chic del Cairo, incastonata tra un salone della Ferrari e una banca in marmi di Carrara. Se oltrepassavi la porta d’ingresso tirata a lucido, però, l’impressione era quella di entrare nella caverna di una famiglia di orsi: luce al neon scoppiettante, moquette nera con voragini e bruciature, stanze sporche e vuote, impiegati che si trascinavano qua e là intenti nell’apparente unica attività di incendiare sigarette, nebbia da nicotina. Fax e fotocopiatrici ricoperti da due dita di cricca, probabilmente andati in corto circuito da qualche lustro. L’unica cosa buona di quel postaccio era il tè di Amin, il resto sarebbe dovuto passare per l’ufficio di igiene, per le ruspe ed essere ricostruito daccapo. Impiegati inclusi.
  Il compito di Amin era facilino, a prova di scemo, ma i buchi nella moquette avrebbero dovuto lanciarmi un segnale forte e chiaro, che non colsi subito, intontito dal tè, dai sorrisi di convenienza e dalla logorrea del proprietario dell’agenzia. Amin mi doveva portare al cantiere in cui, tra cumuli di ruggine e segatura, gli operai fingevano di costruire una specie di Titanic di proprietà dell’Azienda. Io avrei controllato che i servi ci dessero dentro con l’olio di gomito e rispettassero il piano quinquennale, mentre Amin mi avrebbe fatto da tassista e portinaio - al cantiere potevano accedere solo gli addetti ai lavori noti al vigilante. E così era andata il primo dei due pomeriggi di visita al cantiere, tutto liscio. Ispezione con aria da SS (mia), chiacchiere arabe interminabili (di Amin), ossequi alla mia signora e sorrisi da parte dell’ingegnere capo. Schiavi sudati che recitavano la loro parte, strette di mano, buon lavoro, salam alekum, alekum salam.
  Il secondo pomeriggio, però, dopo che avevo lasciato i pax al loro triste destino di plastica e papiro, avevo atteso Amin come un imbecille per oltre un’ora sulla porta del mio albergo. Il grassardo, arrivato trafelato in taxi (uno di quelli di serie B, senza aria condizionata), si era scusato con cento sorry, dando la colpa al traffico infernale del Cairo, peraltro non nato quel giorno. Lo stolto mi aveva raggiunto solo per dirmi che non mi avrebbe potuto accompagnare al cantiere. Impegni precedentemente presi. E i telefoni? Non avrebbe potuto affidare l’incarico a uno sgherro dei suoi? Erano tutti troppo impegnati a dar fuoco alla moquette dell’ufficio?
  Quando da un telefono della stazione di Milano spiegai l’accaduto al G. C., dall’altra parte della cornetta mi schiaffeggiò una vocina acida e stizzita. Milanese, direi.
  “Sono deluso di lei, Scàzzieri, mi aspettavo un comportamento più professionale. Buone cose.”
  Non era servito giustificarmi addossando tutte le colpe a quel bevitore di tè rintronato. Secondo il G. C. avrei dovuto comunque portare a termine la missione: dovevo lasciare il gruppo a perdersi nei meandri di quel casino di città, magari avrei dovuto fare l’ispezione all’ora di pranzo o di notte, ma il mio compito principale in Egitto - nonostante da contratto fossi pagato la vorticosa somma di 95.000 lire nette al giorno esclusivamente per sopportare venticinque subumani dall’alba al tramonto - si era trasformato da accompagnatore turistico in capocantiere. Forse era una promozione, ma nessuno me l’aveva fatto notare. E, senz’altro, nessuno mi avrebbe aggiunto gratifiche in busta paga.

  Arrivato alla sede dell’Azienda ero nervosetto. Mentre attendevo che il G. C. scendesse dai piani alti, per raggiungermi nella saletta delle riunioni con la manovalanza, mi sentivo felice - un bel periodo in America spesato, anche se in cambio avrei dovuto lavorare, era un’ipotesi allettante -, ma il tarlo dei dubbi continuava a rodere con voracità. Troppo bello per essere vero, ci doveva essere l’inghippo.
  G. C. mi accolse nella sua consueta divisa bocconiana, la stessa che gli avevo intravisto indossare, nei corridoi dell’Azienda, le volte che ero venuto a ricevere altri incarichi. Camicina bianca e azzurra a righe e con il collo alto venti centimetri, Rolex XXL smerigliato, mocassini con la cappella quadrata, sorriso falsissimo, parlantina pompata tra la coca e il manageriale, come solo un milanese può concepire. Fisicamente sembrava un incrocio tra Christian De Sica e Berlusconi con i capelli, la sua chiacchiera un misto tra i dialoghi dell’ultimo film dei Vanzina e un libro di economia aziendale.
  “Scàzzieri, veniamo subito al dunque. L’incarico che le vorrei affidare è di alta responsabilità. Si tratta di rimanere tre mesi filati in America, a Los Angeles, come nostro corrispondente per i gruppi di passaggio dagli States o diretti verso il Pacifico. Avrà un cellulare e sarà raggiungibile ventiquattrore su ventiquattro da qualunque cliente dovesse avere dei problemi. Potrà lavorare dalla sua camera d’albergo, lo stesso hotel che ospiterà i clienti in transito da Èl-èi. Dunque, per questi ultimi, dovrà essere disponibile in loco, raggiungerli, dar loro il benvenuto ecc. Lavoro facile, ma di grande importanza. È indispensabile che per un periodo sufficientemente lungo, almeno i tre mesi dell’estate, ci sia qualcuno di fiducia a rappresentarci in una destinazione così importante. Se la sente? Domande??”
  Chi non è del mestiere deve sapere che solitamente le motivazioni che inducono una persona sana di mente a lavorare per un tour operator, nella fattispecie in qualità di accompagnatore/trice turistico/a, sono le seguenti (non necessariamente nell’ordine):
  - diaria (euri netti al giorno, possibilmente mai sotto i sessanta; in alternativa, per periodi lunghi, uno stipendio a forfait equipollente);
  - la possibilità di godersi, nei rari momenti di tempo libero, quanto più lunghi tanto meglio, la città e/o il paese in cui si viene catapultati (viaggiare in schiena al tour operator senza sborsare un quattrino);
  - una buona serie di benefit, che vanno dalle camere d’albergo a quattro/cinque stelle ai ristoranti idem (dunque tutte le spese giustificabili pagate);
  - incassare tangenti dai negozianti locali, in natura o in denaro sonante, sugli acquisti fatti dai propri ragazzi (gli italiani, si sa, sono peggio dei giapponesi in quanto a shopping, e un percento è sempre un percento);
  - possibilità (speranza) che nel mazzo capiti una/un cliente sportiva/o e democratica/o, possibilmente non in viaggio di nozze (ma, nel caso lo sia, il trofeo vale il triplo), carina/o e disponibile agli scambi culturali, soprattutto sotto le lenzuola o in una vasca da bagno;
  - occasionale (molto rara) mancia da parte del gruppo, o almeno delle sue falangi più simpatiche e generose, alla fine del tour.
  Esaminati in un nanosecondo tutti i punti sopra riportati, e messo sull’altro piatto della bilancia il quadro che mi era stato prospettato, è ovvio che di domande ne avessi. A pacchi.
  “Quale sarebbe il compenso?”
  “Due milioni netti al mese. Però, per motivi nostri di amministrazione interna, le verranno accreditati su un conto del Liechtenstein. Il contratto sarà stipulato attraverso una società di quel paese. Tutto regolare, non si deve preoccupare.”
  “E l’albergo com’è? Dove si trova?”
  “È un ottimo cinque stelle a due passi dall’aeroporto internazionale. La città è un po’ distante, ma può raggiungerla comodamente con i mezzi pubblici.”
  “E i pasti? Se il centro è lontano posso mangiare in albergo?”
  “No, mi dispiace, è troppo caro. Però, subito fuori dall’hotel, c’è una tavola calda più economica e accogliente. Dopo un po’ ci si conosce tutti, come in una grande famiglia.”
  “E le altre spese? Come funzionano i rimborsi?”
  “Quali altre spese? Alla partenza le daremo un fondo adeguato per i pasti. Se ci dovessero essere altre spese, che comunque dovranno essere giustificate, le verranno rimborsate alla fine del lavoro.”
  “E il cellulare?”
  “Gliene daremo uno noi. Per attivarlo, però, dovrà acquistare l’abbonamento in loco - dall’Italia non è possibile - con la sua carta di credito. Anche le spese del telefono le verranno rimborsate a fine lavoro. Ah, mi raccomando: all’ingresso negli USA dovrà dichiarare di essere lì per turismo, non per lavoro.”
  “Dunque, mi sembra di capire che non viaggerò attraverso la California, non accompagnerò i gruppi in giro.”
  “Eh, no, il suo lavoro verrà svolto in albergo. Il cellulare le darà la possibilità di spostarsi in città, purché poi, se si dovesse presentare l’esigenza di essere reperibile in hotel, lei si trovi a una distanza adeguata, in modo tale da raggiungere immediatamente i clienti.”
  Il sorriso diplomatico che avevo fin dall’arrivo iniziò a incrinarsi. Non avevo specchi davanti, ma sentivo le involontarie mutazioni della mia faccia, di pari passo alle rotelle tra le orecchie che iniziavano a tirare somme e scricchiolare.
  Dunque, ricapitolando, avrei dovuto vivere segregato per tre mesi in una camera d’albergo, con un cellulare radioattivo sempre acceso attaccato alle orecchie, costantemente a disposizione del Commendator Brambilla che, sulla rotta di Honolulu, alle tre e mezzo del mattino mi avrebbe sbraitato inferocito che la compagnia aerea gli aveva mandato in Sudafrica il bagaglio con le sue camicie di Armani? Non mi sarei potuto spostare più di cinquecento metri dall’albergo, al massimo per pranzare con camionisti ubriachi, seppure in un ‘ambiente familiare’? Avrei dovuto sfidare i doganieri e l’immigrazione a stelle e strisce? Anticipare qualche milione di tasca mia per pagare il canone del telefono, la lavanderia, il costo di una carta di credito che non avevo, ogni altra varia ed eventuale? Evadere le tasse con un conto e un contratto superloschi? Rinunciare a vedere le strade della California, i concorsi di wet t-shirt, così come a incassare mance e tangenti? Tutto questo popò di che per ben due milioni netti al mese (a casa mia 100.000 lire per trenta giorni - avrei lavorato anche di sabato e domenica - ha sempre fatto TRE milioni)?? Già mi vedevo, colto dalla depressione più nera, a sorbirmi ore di CNN nella mia cella a cinque stelle o, nel più fortunato dei casi, a scambiare dialoghi bukowskiani con qualche alcolizzato al bancone della tavola calda di fiducia. Per mesi.
  Iniziai a sottolineare, molto garbatamente, i troppi dubbi che avevo sulla convenienza dell’incarico. Pure G. C., che ormai doveva avermi dato per acquistato, iniziò a togliersi di dosso il sorriso da plastica facciale con il quale mi aveva sottoposto l’incommensurabile affare. Con l’aria di chi mi stava offrendo l’occasione del secolo.
  “Scàzzieri, se ha dei dubbi è meglio che li chiariamo ora. Non vorrei che partisse e poi, una volta là, dopo una settimana decidesse di tornare indietro. Non ce lo potremmo permettere.”
  “Beh, sì, di dubbi non ne ho pochi. A cominciare dalla cifra.”
  “Insomma, quanto vuole guadagnare? Due milioni al mese mi sembrano uno stipendio molto buono. Come la guadagna, di solito, una cifra del genere?”
  Doveva avermi preso per un diciottenne in fuga dai genitori e disposto a calare le brache pur di odorare e adorare l’America. Di anni, però, ne avevo già trentaquattro e il grosso del mio reddito - robetta, siamo d’accordo, G. C. con quella cifra ci faceva lucidare il Rolex una volta all’anno - proveniva dai diritti d’autore per la vendita di foto e testi alle case editrici. Roba senz’altro più divertente che fare il cane da guardia per i turisti, un’attività accessoria quest’ultima, che tolleravo a malapena, ma utile per arrotondare e fare foto a costo di pellicole e sviluppi.
  “Mah, sa, a casa mia ho anche altre attività, oltre quella di accompagnatore”, gli feci notare senza alcuna arroganza, per pura informazione contabile.
  “Mi scusi, ma lei di dov’è?”
  “Bulàgna.”
  “Ah, la città del basket e degli intellettuali. La grande provincia. Ci ho vissuto per un paio d’anni, sa? Poi ne sono scappato, l’atmosfera da sgabuzzino era insopportabile. Non ne potevo più di uscire e vedere che l’universo ruotava esclusivamente attorno alle discussioni sulla Virtus. E poi quell’insopportabile aria intellettualoide che aleggia dappertutto. Io sono milanese, amo Milano, e questa sì che è una città, cosmopolita, dove accadono cose. È una città di gente che fa, non di followers.”
  Per me i campanilismi hanno sempre puzzato di muffa, di cantina lasciata chiusa per troppo tempo, e mi sento cittadino del mondo, italiano quanto brasiliano o pakistano. Bologna non è certo New York, però, sarete d’accordo con me, in giro c’è qualche posto peggiore. Avete mai frequentato, ad esempio, la tangenziale di Milano alle ore di punta?
  Insomma, dopo una tale esternazione, soprattutto dopo la spettacolare conclusione a effetto in inglese, mi sentii improvvisamente bolognesissimo. Addirittura virtussino. In bocca cominciai a sentire il sapore dei tortellini e della gnocca. Se avessi potuto, in quell’esatto momento sarei salito sul punto più alto della Galleria o in groppa alla Madonnina, e avrei pisciato abbondantemente sulla zucca dei guerriglieri dell’aperitivo, dei neosocialisti, degli stilisti e delle modelle, dei vigili con la pera in testa, dei milanisti pirla e degli interisti pure, dei sindaci in mutande e, soprattutto, dei manager da quattro soldi del tutto-organizzato, sporchi sfruttatori del pueblo unido col Rolex al polso e le narici intasate di cocaina da piccolo teatro.
  “Mi dia un paio di giorni per darle una risposta, per favore.”
  “D’accordo. Buone cose.”
  G. C. mi strinse la mano a mo’ di carpa lessa, con una smorfia sul volto che equivaleva a un addio - sapeva già quale risposta gli avrei dato quarantott’ore dopo - e a un chiaro porcocazzo, ora mi tocca trovarne un altro.
  Da quel giorno, se Iddio vuole, l’Azienda non ha più richiesto la mia professionalità.

pubblicato su Crocevia

da L'importante è muoversi




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