sabato 2 marzo 2013

YEMEN - AMORE PROIBITO


L’Azienda mi ha affidato un gruppetto di turisti da scarrozzare nello Yemen a capodanno, in tempi ancora non sospetti - i rapimenti sono solo una moda priva di morti ammazzati e gli sceicchi non hanno dichiarato guerra ai muratori di Manhattan. Il gruppo, non grande, è composto per la stragrande maggioranza da romani, più una coppia di Cuneo. Il lui cuneese è visibilmente insopportabile (torinesi falsi e cortesi) già alla prima stretta di mano: pipa accesa sempre e dovunque, domande logorroiche, fare da esperto a trecentosessanta gradi. I romani sono più semplici e sorridenti, parlano tutti come in un film di Verdone e, ancora una volta, mi trovo costretto ad ammettere che il Sud, quando non s’allarga troppo con inviti coatti a battesimi di figliocci e a banchetti di nozze di tre giorni, è molto, molto più simpatico del Nord. Luogo comune, direte voi. 
L’Azienda, come al solito, mi ha imposto di vendermi come ‘esperto’ del paese che visiteremo, anche se in realtà non ci ho mai messo piede prima. Per aiutarmi nella missione impossibile qualche giorno prima della partenza mi ha spedito una guida dello Yemen da studiare: “così saprai rispondere a ogni loro domanda.” Come no.
Al gruppo ho giurato che nello Yemen ci sono stato dieci anni fa, dito nella falla che dovrebbe lontanamente giustificare i mille boh? con i quali risponderò alle loro insulse domande (Perché i gabbiani cagano in mare? Perché i negri non si lavano\lavorano? Perché non si può fumare la pipa durante il Ramadan?). Uno degli aspetti interessanti dei viaggi organizzati è che le pecore, anziché spendere fior di quattrini e godersi la diversità del paese che vanno a visitare, solitamente preferiscono spendere fior di quattrini e concentrare l’attenzione sulla stiratura delle giacche dei camerieri, sulla cottura della pasta, sul cioccolatino (era fondente. Io lo volevo al latte) lasciato sulle lenzuola dall’addetta alle camere e, dulcis in fundo, sulla preparazione\professionalità dell’accompagnatore\rice. Abbiamo pagato, dunque è giusto esigere divise senza pieghe, pasta al dente nel culo del mondo, cioccolatini al latte. Ed è giusto rompere l’anima all’accompagnatore\rice.
Ma questa non è una pagina di reclamo sindacale. È, vorrebbe essere, un raccontino ricco di sentimenti.
L’accompagnatore\rice, quando riceve la lista del proprio gruppo, come primissima cosa scandaglia quante\i single ci sono. Se la lista è ben fatta (cioè se l'Azienda se ne sbatte della privacy), indica anche le date di nascita dei suddetti (possono servire per i passaporti o per festeggiare il compleanno di qualcuno durante il viaggio). In tal caso ci si pongono limiti in alto e in basso, scartando - in base ai propri gusti e preconcetti - i paxche, se coinvolti in un ménage, finirebbero con il chiamare i carabinieri o il telefono azzurro , oppure col lasciarti un’eredità poco dopo il rientro in patria (ipotesi peraltro da non scartare sempre a priori). Piantati gli steccati, dunque, la curiosità serva e portinaia che si nasconde in ognuno di noi lavoratori scatena la domanda: come sarà Valentina\Amanda\Francesca (Carlo\Ennio\Giuseppe)?? All’incontro in aeroporto la dolce\amara\così-così sorpresa. Le alte sfere delle Aziende, si dice, favoriscono le relazioni fra tour leader e pax - il cliente paga per divertirsi, dunque tutto va bene purché a fine viaggio sia contento -, mentre aborrono quelle fra addetti ai lavori: due (o più) T. L., guide, schiavi dei villaggi, animatori di gente senz’anima che trombano allegramente fra loro, senza includere l’amabile clientela, finirebbero col dimenticarsi della suddetta, trascurandola in nome di attività personali non giustificate. Questo il quadro.
Io ho capacità di scanner ultraveloce, e di solito ci metto mezzo minuto a mettere a fuoco le reali possibilità di escalation dei sentimenti nel corso del viaggio che sto per affrontare. Tra i ragazzi che stavolta mi hanno appioppato non mi sembra di scorgere grosse cose, mi sa tanto che il tour sarà all’insegna, come troppe volte, della voglia di rintanarsi in camera e del conto alla rovescia sui giorni che mancano al rientro. Nella comitiva ci sono solo due fanciulle che, molto alla lontana, potrebbero risultare interessanti, se non fosse che sono visibilmente troppo giovani. Con la coda dell’occhio scorro la lista degli invitati: diciassette e ventun’anni. Troppo pochi, almeno la prima, per i miei ventinove. E poi, così mi dice, vuole fare la poliziotta e ama Ligabue (purtroppo non il pittore), dunque archiviato il caso. La seconda, beh, se ne può parlare, vedremo come si evolverà la fazenda.
Le girls sono figlie di altrettante coppie di Latina, scoppiettano energia e ogni anno si fanno almeno due viaggioni con babbi e mamme, tutti commercianti di materiale elettrico (sarebbe interessante sapere quanti elettricisti yemeniti di solito vanno in vacanza in Australia o in Perù). A casa dicono di avere una grande mappa del mondo che trafiggono di bandierine, tipo Emilio Setterfedele, ogni volta che fanno un paese nuovo. I loro bei sorrisi, comunque, mi fanno perdonare l’ottusità, per cui quando sento queste bestemmie vado oltre e mi concentro sul, chiamiamolo così, lavoro.
Una pseudocoscienza professionale mi dice, mi urla che giammai avrò pensieri birichini nei confronti di Marina, la ventunenne più carina (nonché unica) del gruppo, che è troppo piccola, che babbo e mamma elettricista non potrebbero tollerare una mia ansia di entrare nel loro albero genealogico, che se l’Azienda lo venisse a sapere non mi darà più Alte, Splendide Missioni, ecc. Ma al cuore, ormai lo sanno anche i sassi, nun se comanna.
Due settimane a stretto contatto con i latini, oltre ad avermi trasformato da bolognese in parlatore della lingua della Arcuri, hanno scatenato un’attrazione fatale tra i nostri due cuori, occhi, pensieri. Io e Marina cerchiamo di stare vicini il più possibile, anche se le situazioni e gli sguardi di tutti puntati addosso - si devono essere accorti del nostro continuo piccionare - non permettono più di tanto: manina\piedino sotto i tavoli dei ristoranti (casualmente sediamo sempre vicini), sguardi più espliciti di cento baci francesi, doppi sensi, voglia di respirare l’aria dell’altro\a.
Il viaggio, il medioevo yemenita, le scorte con il kalašnikov per evitare di essere rapiti, i ruminatori di qat, le guide assatanate e intente a spremere i miei ragazzi nei negozi, sono un obiettivo primario che per noi due lentamente si trasforma in cornice esotica che giustifica ma, al tempo stesso, ostacola le nostre vere intenzioni: perfino la notte in cui l’accompagnatrice di un’altra Azienda - una cinghiala orrenda che fa questione di vestirsi sempre e solo in minigonna in un paese musulmano integralista -, non faccio nomi, esterna a voce alta, a tavola, come un altro gruppo sia stato rapito e massacrato nel Sud del paese. Ovviamente scatta il panico generale, tutti si attaccano al telefono a tranquillizzare i parenti in Italia e mi tempestano di domande cui non sono in grado rispondere. L’unica cosa che ho in testa è Marina, e sono certo che è reciproco.
La love story si trascina con ansia, ma nella più platonica delle maniere: a parte i pudichi sfioramenti che si innescano ormai automaticamente sotto i tavoli, l’hard più hard che riusciamo a scambiarci è un innocente bacio quando lei, con una scusa sporchissima - consegnarmi un documento, restituirmi un dizionario, robe così -, fa una rapidissima incursione nella mia camera. Faccio attenzione a lasciare la porta socchiusa, so benissimo, anche se non li vedo, che i suoi ci stanno scrutando con il periscopio dalla loro camera.
Alla fine delle due settimane babbo e mamma elettrici hanno capito tutto, il resto del gruppo pure, io e lei siamo totalmente persi nel limbo del vorrei-ma-non-posso, ma la lunga marcia deve continuare come-da-programma, per cui tutti fanno finta di niente. E poi sai mai che un genero, lassù nella città dei tortellini e dell’università, non possa tornare utile. Ormai ha anche imparato la nostra lingua.
Il conto alla rovescia è terminato, ci rimane solo il volo intercontinentale. Sempre per pura coincidenza in aereo sediamo l’uno a fianco dell’altra, circondati dal resto della famigghia. Calcolando con la coda dell’occhio i movimenti degli elettricisti, approfittando dei loro momenti di sonnolenza, del casino delle hostess con i vassoi e dei vuoti d’aria, riusciamo a scambiarci un miliardo di sguardi, di frasi grondanti miele e un rapido bacio, scossi dai fremiti della passione. Occhi con i lucciconi, voglia di paracadutare tutti sull’Egitto e dirottare su Cuba.
Arrivati a Fiumicino ci tocca recitare l’ultima parte del copione: i saluti. Teniamoci in contatto (certamente), mandiamoci le foto (io le ho mandate, loro no), scriviamoci (sicuram.), vogliamoci bene. Strette di mano e sorrisi falsi come solo a Torino li sanno stampare. Marina non ce la fa, e alla stretta di mano sostituisce un forte abbraccio, con un Ti amo sussurrato a un orecchio, che mi lascia paralizzato. Gli altri, perfino i suoceri, fanno finta di guardare la tappezzeria dell’aeroporto, i cani antidroga, le puttanate esposte nei negozi. Io ho un sorriso da ictus, e in faccia devo essere viola.
Torno a casa bastonato come uno che è finito sotto un treno, convinto che le barriere di età siano un puro passatempo per militi dell’arma e la gente che non ha di meglio a cui pensare. E poi ventun’anni sono a prova di legislatore, per cui de che stiamo a parla’?
Dopo qualche giorno iniziano ad arrivarmi i messaggini sul cellulare, le chiamate, le promesse di ci rivedremo senz’altro, non possiamo non. Perso nel delirio spedisco una scatola di regali e foto a Marina, allegata lettera d’amore, di quelle profumate e baciate. Più invito a prendere il primo treno e a trasferirsi da me. Il silenzio che segue è inquietante. Dopo qualche giorno in segreteria trovo un breve messaggio piagnucoloso, interrotto dai singhiozzi.
“A Pie’, scusa, sai, ma nun posso proppio veni’ lassù. So’ piccola, devo studia’. Eppoi qua c’ho er fidanzato. Scusa. Scusa. Ciao.”
Scemo che sono. D’ora in poi solo vedove o divorziate.

da Cuore Matto


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