mercoledì 1 maggio 2013

TIMOR EST - IN SPIAGGIA CON LE NAZIONI UNITE


Dili, la surreale capitale di Timor Est. Fra ricostruzione, sprechi e un futuro molto incerto

Avete perso gli sprechi dell’italietta craxiana degli anni Ottanta? Volete rivivere quei magici momenti in cui l’economia circolava e tutti vivevano felici & contenti nel Paese dei Balocchi? Fate come me. Prendete un costoso aereo della compagnia Merpati da Denpasar, Bali, e raggiungete Dili, la surreale capitale del primo Paese del nuovo millennio (nato ufficialmente nel 2002), Timor Leste. Trovato un alloggio da terremotati a prezzi da funzionario delle Nazioni Unite, la domenica percorrete il bel litorale lungo le spiagge di Areia Branca e del Cristo Rei. A giudicare dal viavai di mezzi sembra di essere tra Rimini e Riccione a ferragosto, con la differenza che il 90% dei mezzi in circolazione sono delle UN, United Nations. La pericolosissima missione di chi guida questi scintillanti fuoristrada è quella, di fondamentale importanza per lo sviluppo della nazione, di andare a farsi un tuffo/prendere la tintarella lungo lo splendido bagnasciuga della due spiagge. Chi paga (la loro benzina, i loro mezzi)? Io e voi, of course. Con le nostre tasse, ovvio sottolinearlo.


“Perché non se ne vanno in spiaggia in taxi, pagando di tasca loro, visto quanto guadagnano?”, è la domandina ingenua che rivolgo ad Andrew, avvocato-giornalista canadese, a Dili da anni per occuparsi di questioni rognosissime relative alla ri/costruzione del Paese (l’ultima sua inchiesta, di quelle leggerine, da gossip durante l’aperitivo: il traffico di esseri umani, in pratica schiavitù destinata alla prostituzione). Dell’isola sembra sapere tutto, dunque rincaro la dose. “E perché non usano i nostri mezzi e la nostra benzina per fare davvero qualcosa per la gente del luogo? Ad esempio portarli al mercato a vendere le loro merci?” Da bravo avvocato, Andrew spiega: “I mezzi delle UN non possono portare a bordo altre persone al di fuori degli impiegati cui sono stati affidati.” “Perché non cambiare questa legge, almeno in questo angolo del globo, dove la questione della sicurezza mi sembra ormai sotto controllo?”. I miei polemici perché sono infiniti, ma non trovano una risposta logica, se non quella che il dinosauro UN serve innanzitutto se stesso, stipendiando lautamente poveri cristi (poliziotti giordani o filippini, professori brasiliani) giunti da mezzo globo a ricoprire cariche di pseudo-utilità. In realtà membri di un mondo parallelo che ha pochi o zero scambi veri con la società locale. 


Dipinto surreale, che trovo confermato una sera mentre provo a captare (rubare) un segnale wifi, gratuito ma lentissimo, seduto di fianco al ristorante Discovery Inn, considerato il top in città, lungo l’Avenida Presidente Nicolau Lobato. D’improvviso arriva una dozzina di fuoristrada a sirene spiegate, bloccano la via. Mezzi delle UN, Interpol, body-guard dalle facce cattive e dagli occhiali scuri, anche se sono le nove di sera e il cielo è buio che più buio non si può. Chi diavolo è arrivato, Mr. Obama? Da un fuoristrada nero scende Lech Walesa. Invecchiato, un po’ traballante, forse ha già bevuto un cicchetto di troppo in albergo, prima del rito della masticazione. Evvai, sono davvero negli anni Ottanta. Poi mi chiedo, ma chi può avere interesse, nel 2010, a uccidere/derubare l’ex leader di Solidarnosc, nonché ex presidente della Polonia? Qualche reduce segretario comunista del vampiro Jaruzeslki? Sono ancora vivi? E, se sì, a Timor Est? Inoltre: c’è bisogno di una dozzina di mezzi per portarlo a cena? Misteri degli anni Ottanta. Rivedo Walesa il giorno dopo, il 20 maggio, al Palazzo Presidenziale. Si commemora l’ottavo compleanno della repubblica, nel Giorno dell’Indipendenza. Sfilate militari, majorette che sembrano uscite da una parata lungo la 5th Avenue, e un discorso dei suoi da parte di Ramos-Horta (a un soldato australiano, evidentemente per punizione, è stato dato l’incarico di sorreggere un parasole a protezione del presidente per tutto il discorso, alla fine del quale il milite aussie dovrà fare almeno un paio di settimane di fisioterapia per riattivare la circolazione sanguinea delle braccia), seguito da taglio della torta di compleanno e frizzantino in compagnia di un paio di vescovi e uno stuolo di VIP di mezzo mondo. Walesa si è perso la torta, perché a metà discorso dell’ambasciatore neozelandese si dev’essere rotto delle chiacchiere e, scortato dai soliti moschettieri, si è fatto riportare in albergo. Alla sera il rito al ristorante si ripete. Mi sa che la cucina del Discovery Inn è proprio buona.


La festa è qui. Ma Xanana, dov’è?
Mi ero intrufolato alla commemorazione non per sbirciare le cosce delle majorette o per assaggiare la torta di compleanno, ma soprattutto per vedere Xanana Gusmão, il ‘Che Guevara’ timorese. Le sue vicende, e così Timor Est, mi sono rimaste in testa fin dal 2001, quando tradussi Crónica de uma travessia, da noi diventato Un’isola, lontano. Opera prima di Luís Cardoso, scrittore timorese emigrato a Lisbona subito prima degli orrori dell’invasione indonesiana. Ero partito da un amore generale, dai contorni indefiniti, per il mondo lusitano che fu, per le sue colonie. Mi sentivo un Tabucchi in miniatura, ma la traduzione di quel libro si rivelò più ostica del previsto. Infarcito di frasi poetiche, ma anche da un’infinità di espressioni in tétum, l’idioma principale dell’isola, oggi lingua ufficiale assieme al portoghese. In gran parte espressioni che si riferivano al mondo particolarissimo, tribale, fra culti degli spiriti e dialetti regionali, di quel luogo remoto, a me del tutto ignoto. Il risultato fu una traduzione digeribile solo dagli animi più pazienti, disponibili a fare il salto agli ostacoli fra note a piè di pagina e glossario. Xanana era uno degli attori di sottofondo di quella storia, il passaggio dal mondo lusitano a quello indonesiano la narrazione portante. 










Scalpitavo, dunque, per vedere il ‘Coccodrillo che dorme’ (il soprannome di Timor Est) e il suo Eroe Nazionale, soprattutto dopo aver partecipato alla presentazione di una sua biografia, scritta da un’australiana, nella biblioteca intitolatagli (www.xgrroom.org). La festa c’era, ma non il primo ministro dal passato glorioso. E nemmeno monsignor Belo, premio Nobel per la pace nel 1996, ex-aequo con Ramos-Horta. Il vescovo, poi mi hanno detto, era a Baucau, seconda città del Paese, Xanana chissà dove. Pazienza. Non mi è restato che ripercorrere i passi dell’indipendenza attraverso i suoi luoghi-simbolo. Nella biblioteca c’è una piccola sala rigonfia di onorificenze, attestati, foto molto interessanti sul periodo prima e dopo l’invasione indonesiana. Una tappa d’obbligo all’affollato (di lapidi) cimitero di Santa Cruz, dove un mare di gente fu massacrata dai soldati indonesiani sotto le telecamere dei giornalisti stranieri, nel 1991. Nessuno, ancora, ha fatto un monumento o un memoriale dedicato all’eccidio, e nel cimitero c’è una sola tomba di una delle vittime di quel fatidico 12 novembre. L’Archivio e Museo della Resistenza (www.amrtimor.org), vicino all’università, è un altro luogo dove trovare tracce di memoria di quegli eventi, ma forse ancor più interessante è l’esposizione permanente Chega! (Basta!, in portoghese, www.cavr-timorleste.org) nell’ex prigione portoghese-indonesiana nel quartiere di Balide. Alcuni poster ripercorrono le tappe della turbolenta storia timorese, ma sono le vecchie celle, con i graffiti dei prigionieri e tabelloni e immagini che ne ricordano i nomi, a dare un’idea straziante di ciò che è capitato in questo tragico luogo simile, in parte, alla prigione dei Khmer Rossi a Phnom Penh, in Cambogia.





Non solo passato. Viva il futuro
In quanto unico straniero con una macchina fotografica al collo, i ragazzini del lungomare di Dili mi chiamano Mister e mi chiedono one dollar, senza tanti please. L’inglese è il futuro, l’Australia è vicina, e il Portogallo e la lingua di Camões lontani, nonostante rappresentino la mezza ufficialità di Timor Est. È prevedibile un futuro come quello di Goa, dove l’inglese ha scalzato il portoghese che fu, nonostante quattro secoli e mezzo di dominazione coloniale. Gesù Cristo e baccalà, questi i piloni fondamentali della cultura lusitana. Il primo ancora attualissimo e molto seguito a Dili, sebbene ‘intaccato’ da correnti parallele (evangelici e simili) che si sono infiltrate a corrodere il monopolio cattolico. Di baccalà ne rimane pochino, se non nel lussuosa boutique di alimentari importati Páteo, tutta azulejosall’entrata e vini di Oporto. I prodotti locali per eccellenza sono due: il caffè e i tais. Il primo buono e forte, i secondi tessuti a telaio tradizionali di questa regione. Nel cuore di Dili un intero, sonnacchioso mercato è dedicato al prodotto artigianale più pregiato di Timor Est, ma i commercianti non sembrano fare grossi affari. A volte provano a vendere tais costosissimi (alcune centinaia di dollari), in quanto ‘antichi’, con data riportata: 1910. Ma se chiedi chi li ha fatti ti risponderanno che loro stessi li hanno tessuti. Chi prova a venderteli non dimostra un secolo, e la matematica non è un’opinione. Anche l’organizzazione Alola (http://www.alolafoundation.org/) produce questi tessuti di cotone, unendo lavoro a buoni propositi per dare occupazione ‘sana’ alle persone. 






Per un grande bagno nell’arte a tutto campo - giovane, fantasiosa, ma con forti radici locali -, invece, niente di meglio che Arte Moris (http://www.artemoris.org/), grande contenitore creativo lungo la strada dell’aeroporto, nel quartiere di Comoro. Comunità tardo-hippy, è un laboratorio che non si ferma mai, fra pittura e scultura, musica e teatro. Visitarla è un’esperienza unica, e si rischia di aprire il portafogli e portare qualcosa di insostituibile a casa. L’arte vera di questo ‘nuovo’ Paese, però, sono le sue bellezze naturali. Timor Est, non solo Dili, ha grandi potenzialità per il turismo, fra spiagge davvero incontaminate, colline spettacolari, risaie ‘alla balinese’, villaggi tribali e molto altro. Il turismo, al momento, è solo virtuale, ma possiamo essere noi a dare il ‘la’ (io con la mia Nikon e i miei bermuda ho già contribuito, da buonMister). Tra i pionieri di questa avventura l’associazione Haburas (sede nella Rua Celestino da Silva, Farol, haburaslorosae@yahoo.com), il cui boss Demétrio ha la possibilità, più unica che rara, di organizzare viaggi nella regione orientale di Tutuala, fino alla ‘perla’ del litorale, l’isola di Jaco. Fondali cristallini, ma zero ombrelloni o Mister in giro. A voi l’onore di essere i primi, o quasi.



ALTRE FOTO di Timor Est su:


ATAÚRO, L’ISOLA DELLE BAMBOLE
Ogni sabato mattina alle 9 vale la pena di prendere il traghetto Nakroma per la dirimpettaia isola di Ataúro (5$ sola andata, circa 2 ore di navigazione), con partenza dal porto lungo Avenida de Portugal (Beach Road). Volendo si può tornare a Dili il pomeriggio stesso, altrimenti si è costretti a dormire sull’isola e rientrare nei giorni successivi con qualche imbarcazione di pescatori per circa 10$. Sull’isola, dove vivono circa 8000 persone, si può visitare il villaggio e, magari, incontrare due missionari italiani (il trentino don Francesco Moser, in arte ‘Padre Chico’, e l’altoatesino don Pierluigi Fornasier, ‘Padre Luís’), ad Ataúro da lungo tempo. Assieme alla pittrice svizzera-italiana Piera Zücher gestiscono una ‘scuola’ per la realizzazione di bambole (bonecas) di pezza, gestite dalla cooperativaGrupo Boneca de Ataúro (www.bonecasdeatauro.com). Incontrando i padri, oltre a conoscere le loro interessanti storie, si potranno acquistare uno dei prodotti artigianali più carini del Paese, così anche da sostenere la povera economia locale. Per dormire sull’isola, a 25$ a notte c’è il Nema’s Lodge (a Beloi, tel. 00670 7236084, gestito dall’australiano Barry Hinton) oppure il Tua Koin Eco-Village (a Vila, tel. 00670 7236085,http://www.atauroisland.com/, gestito dall’ataurense Roman Luan e da una ONG dell’isola).





FUTU MANU
Spettacolo non per tutti gli stomaci, quello del combattimento dei galli. Come e forse più che nella vicina Indonesia, il futu manu di Timor Est può essere considerato lo ‘sport’ nazionale, almeno per gli uomini. Gli incontri si tengono tutti i giorni, ma il culmine è verso le 4 del pomeriggio, la domenica, in una specie di arena apposita, seminascosta fra le case a pochi passi dal Venture Hotel (Rua Filomena de Camara, Lecidere). Sarete gli unici spettatori stranieri. Il lucroso business delle scommesse è gestito da mafiosetti cinesi locali, gli stessi che nei giorni precedenti gli incontri passano lunghe ore a fare il bagno con spazzolina e sapone ai galli, coccolandoli come bebè. Nell’arena, però, il trattamento è ben altro. Alle zampe degli animali viene applicata una tagliente lama importata dall’Australia (20$) e l’incontro continua, fra piume che volano e schizzi di sangue in ogni dove, finché uno dei due contendenti giace al suolo stramazzato. Nel caso il perdente sia ancora vivo, salvo casi eccezionali (il proprietario ci tiene particolarmente e ne ricuce le ferite), viene finito a bastonate. Il proprietario del gallo vincente, oltre portare a casa il proprio campione, un po’ di denaro e l’orgoglio scintillante, ha il diritto di prendere il cadavere del perdente. Cena garantita, con sapore di vittoria.

http://www.argusphoto.com/argusfeature/travelfeature.travelfeature..(0-0).East%2BTimor.218-108000.html

COME ARRIVARCI, DENARO
Per raggiungere Dili attraverso le nuvole ci sono solo tre possibilità. La più comoda è da Denpasar (Bali), dalla quale ogni giorno la compagnia Merpati (Jalan Gatot Subroto 26, tel. 0361 420999,www.merpati.co.id; a Dili in aeroporto e alla base del supermercato Landmark, quasi di fronte all’ambasciata australiana) vola in circa un’ora e 40 minuti. Costo del biglietto a/r: 350$. Un’alternativa ancora più costosa sono i voli da Singapore della compagnia AustAsia Airlines (www.austasiaairlines.com). Una terza e ultima possibilità, arrivando dall’altra parte del globo, via Darwin, Australia, è la compagnia Airnorth (www.airnorth.com.au). All’aeroporto di Dili viene dato un visto turistico rinnovabile di 30 giorni per 30$ (contanti, nessun’altra valuta accettata). La valuta è il dollaro americano, ma circolano le monete locale per le frazioni (centesimi). Con il bancomat del circuito Maestro/Cirrus e con la carta di credito Visa si possono incassare contanti al bancomat dell’aeroporto e in alcuni punti in centro (tra cui il supermercato Lita), tutti della banca ANZ (www.anz.com/easttimor).

ALBERGHI
Hotel Timor
Rua dos Mártires da Pátria
Tel. (00670) 3324502
www.hotel-timor.com
Considerato il miglior hotel di Dili, frequentato da VIP e giornalisti, nel centro della città. Offre tutti i servizi, incluso internet via cavo. Camere a partire da 135$, inclusa colazione e trasporto da/per l’aeroporto.

Hotel Audian
Jalan 15 Oktober, Audian
Tel. (00670) 3323080
hotelaudiandili@mail.timortelecom.tp
Hotel semplice ma carino, in posizione centrale. Camere con bagno da 38$ in su, inclusa colazione e servizio di lavanderia. Con ristorante e autonoleggio.

Oriental Hotel
Avenida Presidente Nicolau Lobato 2
Tel. (00670) 3321667
elizabethhotel2000@yahoo.com
A due passi dalla cattedrale, ha camere decenti con bagno a partire da 50$, colazione inclusa.

Venture Hotel
Rua Filomena de Camara, Lecidere
Tel. (00670) 3313276
venture_hotel@hotmail.com
Riservato a chi può spendere il minimo possibile, offre ‘camere’ (box con finestra e aria condizionata in prefabbricati da terremotati, bagni esterni) a 23$ (33$ quelle con il bagno interno), colazione inclusa. Ha una piccola ma piacevole piscina, un buon ristorantino e un tavolo da biliardo.

RISTORANTI
Discovery Inn
Avenida Presidente Nicolau Lobato
Tel. (00670) 3311111
È considerato il miglior ristorante della capitale, frequentato dai VIP e da chi può spendere (piatti più cari del dovuto, a partire da 10-12$). Cucina varia: internazionale, indiana e vegetariana. Aperto tutti i giorni a pranzo e a cena.

Rocella Café
Avenida Presidente Nicolau Lobato 18
Tel. (00670) 7237993
La proprietaria è una discreta cuoca e serve piatti semplici ma gustosi (portata più birra a 10$). Nel patio ci sono 8 camere con bagno a partire da 30$, frequentate dalle zanzare.

Kafé Aroma
Rua Filomena de Camara, Lecidere
Tel. (00670) 7558735
Dirimpetto al Venture Hotel, serve buoni piatti brasiliani (feijoada il venerdì) a 7-8$. È gestito da una comunità di ragazze che hanno subito abusi di varia natura, dunque mangiando qui si fa anche un’opera di ‘reintegrazione’. Frequentato dalla folta comunità brasiliana, è aperto solo a pranzo (chiude alle 17) dal lunedì al venerdì. Per avere il menù completo bisogna arrivare presto.

UNA STORIA TORMENTATA

A partire dal 1613 portoghesi e olandesi si spartirono l’isola di Timor, la maggiore delle isole della Sonda, circa a metà strada fra Giava e l’Australia. Con una superficie di 14.874 chilometri quadrati, più o meno quella della Puglia, fino al 1975 Timor Leste (Est) fu considerata provincia d’oltremare del Portogallo, mentre quella occidentale passò alla repubblica indonesiana, dopo che questa raggiunse l’indipendenza. I portoghesi sfruttarono il loro possedimento più orientale e distante non tanto come una vera e propria colonia - evitarono il più possibile di mescolarsi alla gente del luogo -, quanto come base commerciale e luogo di confino per i dissidenti interni. In particolare l’isola di Ataúro, situata lungo la costa settentrionale, servì a questo scopo durante il regime di Salazar. Timor Est divenne un luogo lontano e dimenticato, dove la corona e la dittatura esportavano cultura - lingua e religione innanzitutto - e ‘teste calde’, e da cui in cambio ricavavano prodotti agricoli (caffè, legno di sandalo, tabacco, copra) e forestali (legname, caucciù). Diversi deportati portoghesi, perlopiù anarchici, si rifecero una vita in questa isola tropicale, sposando donne native e avviando piccoli commerci. I loro figli, mestizos, si allearono in più di un’occasione ai missionari domenicani - arrivati già nel 1520 - e ailiurais locali, i re indigeni che non amavano i bianchi portoghesi. Queste alleanze portarono a una serie di ribellioni tra il 1893 e il 1912, tutte represse nel sangue. Il ‘dimenticatoio’ in cui Timor Est fu relegata si fece ancor più palese dopo la Prima guerra mondiale, quando la crisi economica in Portogallo portò alla rarefazione dei commerci tra le colonie e la madrepatria. L’isola si trovò a dover contare solo sulle proprie forze, basandosi quasi esclusivamente sulle risorse dell’agricoltura - mais, riso, cocco - e della pesca, inaugurando un secolo di pressoché totale autosufficienza. Durante la Seconda guerra mondiale Timor Est dimostrò la sua importanza strategica lungo lo stretto di Ombai-Wetar, uno dei motivi essenziali che hanno condizionato le guerre interne e gli interessi internazionali fino a oggi: si tratta di uno degli unici quattro corridoi di passaggio utilizzabili dai sommergibili nucleari americani, di pari importanza allo stretto di Gibilterra. I giapponesi invasero Timor (1942) e trasformarono l’isola in una base aeronavale. Durante l’occupazione, i giapponesi aizzarono i timoresi contro i portoghesi a tal punto che questi ultimi, una volta terminato il conflitto, decimarono la popolazione con una serie di rappresaglie. Gli australiani, inoltre, contro il volere del Portogallo, sbarcarono sull’isola nel 1941 con un piccolo commando che trovò ampio appoggio tra la popolazione locale, la quale pagò un prezzo carissimo: si è calcolato che a fine conflitto a Timor Est persero la vita tra i 40.000 e i 60.000 abitanti. La dittatura inaugurata da Salazar nel 1932 proseguì fino al 1974, lasciando sino all’ultimo l’isola nel letargo economico e culturale. L’incruenta Rivoluzione dei Garofani in Portogallo (aprile 1974) e la conseguente dissoluzione dell’impero coloniale svegliarono chi da tempo auspicava l’indipendenza. Tutte le componenti di quel movimento provenivano perlopiù dall’élite che aveva avuto la possibilità di ricevere un’istruzione all’occidentale negli istituti cattolici dell’isola o, i più fortunati, in Portogallo e nelle altre sue colonie africane - soprattutto Angola, Mozambico e Guinea-Bissau - e asiatiche - in particolare Macao. Chi proveniva dalle ex colonie africane o dai collettivi studenteschi di Lisbona portò con sé idee piuttosto militarizzate (i primi) e/o di sinistra (i secondi); chi si era formato nei seminari di Timor Est, e lì era rimasto, seguì ideali che mescolavano cattolicesimo a indipendenza, distacco lento e graduale a conservazione dei pilastri culturali portoghesi. Nacquero così le tre formazioni principali del pensiero, le stesse che hanno combattuto o appoggiato l’annessione all’Indonesia. Innanzitutto il FRETILIN (inizialmente ASDT, Associazione Social-Democratica di Timor), il Fronte Rivoluzionario di Timor Est Indipendente, nato in origine come movimento populista cattolico e, solo in seguito, divenuto portabandiera della sinistra, grazie ai suoi elementi più politicizzati e radicali, ispirati soprattutto al FRELIMO, il Fronte Marxista per l’Indipendenza del Mozambico. Il rosso, colore-simbolo del FRETILIN, divenne lo spauracchio e il bersaglio dei berretti altrettanto rossi dei corpi speciali indonesiani che, di lì a poco, avrebbero invaso il Paese. Ben più moderato e conservatore, l’UDT (Unione Democratica Timorese) interpretò l’esigenza di autonomia, seppure lenta e graduale, ma sotto la supervisione del Portogallo. Decisamente dall’altra parte della barricata, e numericamente molto inferiore rispetto alle altre due formazioni, l’APODETI fu l’organizzazione che si schierò per l’annessione all’Indonesia. La Rivoluzione dei Garofani arrivò come una doccia fredda sui cittadini timoresi che, per un breve periodo, si trovarono a non saper che fare di se stessi. I gruppi opposti iniziarono a dialogare sulle varie possibilità, ma interessi più grandi della semplice indipendenza erano alle loro spalle - il petrolio delle acque territoriali, la posizione strategica dell’isola - e la soluzione sembrò introvabile. Nel 1975 il FRETILIN e l’UDT si allearono momentaneamente per negoziare con il Portogallo e stabilire le modalità di transizione verso l’indipendenza. Il FRETILIN, almeno all’inizio, propose una politica estera di non allineamento e di buone relazioni con Jakarta. I due gruppi, però, presto si trovarono in profondo disaccordo su molti punti, e il FRETILIN iniziò a prendere connotati troppo di sinistra per i gusti dell’UDT e dell’Indonesia. Tentando di battere il FRETILIN sul traguardo, l’UDT prese il potere con le armi l’11 agosto 1975, dando il via alla guerra civile. I portoghesi furono costretti ad abbandonare il territorio e l’Indonesia ammassò truppe lungo il confine. Il tentativo dell’UDT, però, fu presto contrastato dalle milizie del FRETILIN che, in appena un mese, conquistarono quasi tutto il territorio. Il 28 novembre del 1975 i “rossi” dichiararono unilateralmente l’indipendenza e l’istituzione della Repubblica Democratica di Timor Est, contro il volere del Portogallo, dell’Indonesia, dell’UDT e dell’APODETI. Il 6 dicembre il presidente statunitense Gerald Ford ed Henry Kissinger lasciarono l’Indonesia, dove si erano recati in visita ufficiale a trovare il loro amico Suharto, il dittatore del grande arcipelago. Meno di ventiquattrore dopo le truppe indonesiane invadevano Timor Est.  Il FRETILIN - poche migliaia di uomini - si ritrovò da solo a combattere con le armi lasciate dai portoghesi in fuga o con quelle rubate agli indonesiani contro più di ventimila soldati coadiuvati da aerei Hercules e da mezzi corazzati. I membri dell’UDT ripararono in Portogallo od oltre confine e la guerra presto si trasformò in una guerriglia: gli indonesiani occuparono velocemente tutti i centri maggiori, mentre gli uomini del FRETILIN si rifugiarono sulle impervie montagne dell’isola. A livello internazionale nessuno si occupò della questione di Timor Est, troppo distante da tutti e apparentemente di scarso interesse:. L’Australia, nonostante l’aiuto ricevuto dai timoresi durante la Seconda guerra mondiale, finse di non vedere ciò che accadeva alle sue porte (anzi, appoggiò Suharto addestrando i suoi ufficiali, attuando un programma coordinato di sorveglianza marittima e concedendo diversi milioni di dollari in aiuti militari), gli statunitensi appoggiarono tacitamente l’Indonesia (non volevano una Cuba anche nel Pacifico), l’URSS fece buoni affari con l’Indonesia. Il Portogallo lanciò il grido di allarme sulle condizioni della sua ex colonia, ma rimase del tutto inascoltato. Nel 1976 l’Indonesia fagocitò ufficialmente la porzione orientale dell’isola, dichiarandola ventisettesima provincia del paese. L’ONU, tuttavia, non riconobbe l’annessione - numerose furono le sue risoluzioni, mai rispettate -, “legittimata” da parte indonesiana tramite un referendum truccato. Da qual momento Timor Est fu considerato un “territorio senza un proprio governo” dalla comunità internazionale e il Portogallo venne riconosciuto come suo rappresentante internazionale. La guerriglia e il dominio incontrastato dell’Indonesia si sono protratti nel sangue per circa un quarto di secolo di carestia, malattie, diaspora dei timoresi e silenzio stampa su questa guerra dimenticata che, secondo alcune stime, ha provocato circa 200.000 vittime. All’inizio degli anni Ottanta l’Indonesia spendeva per Timor est circa mezzo miliardo di lire all’anno per la sanità, contro il miliardo e mezzo al giorno per la guerra. In una seconda fase dell’occupazione, il governo indonesiano fece grossi investimenti nelle infrastrutture di Timor Est (soprattutto strade - nel 1975 c’erano solo 20 km asfaltati -, scuole e sanità), senza però sviluppare l’industrializzazione. Contemporaneamente, i berretti rossi dei commando indonesiani utilizzavano tutti i mezzi, leciti o meno - tortura, incendio dei villaggi, distruzione delle foreste, furti di bestiame, massacri, deportazioni di massa - per stabilire il controllo definitivo del territorio, mai avvenuto. Nel 1977, addirittura, usarono l’aeronautica per radere al suolo i villaggi ribelli e istituirono diversi “campi strategici” per la deportazione. Figura fondamentale del conflitto, oltre che dei fatti di oggi, è Xanana (all’anagrafe José Alexandre) Gusmão, il carismatico ‘Che Guevara’ di Timor Est, attualmente primo ministro e, dopo la liberazione dagli indonesiani, presidente della repubblica. Figlio di un professore di catechismo, studiò dai gesuiti e, dopo un periodo di ‘transizione’ - funzionario statale, poi licenziato, quindi auto-esiliato in Australia - tornò a Timor nel 1975. La sua partecipazione al FRETILIN, almeno inizialmente, lo vide come fotografo del movimento, quindi come uno dei suoi leader più rappresentativi. Dopo l’uccisione di Nicolau Lobato - leggendario capo militare indipendentista - da parte dell’esercito indonesiano, ne prese il posto e fondò il Consiglio Nazionale della Resistenza Maubere, organismo che accorpò tutti gli indipendentisti. Di fronte allo strapotere militare indonesiano, il leader partigiano lanciò il motto ‘Siamo gente determinata a farsi sterminare’. Sulla guerra di Timor Gusmão ha scritto un libro, Timor Est, un popolo, una patria. Catturato nel 1992, fu condannato all’ergastolo, pena in seguito ridotta a vent’anni di reclusione. Di lui, per un certo periodo, si persero le tracce, tanto che alcuni ipotizzarono che fosse morto nelle prigioni indonesiane. Nel 1989, anno di relativa tranquillità - i ribelli erano sotto controllo e l’isola fu aperta al turismo - papa Giovanni Paolo II visitò l’isola, dove sollecitò, senza grosso successo, il rispetto dei diritti dell’uomo e la libertà di religione. Come a confermare l’inutilità delle parole del pontefice, il 12 novembre del 1991 l’esercito indonesiano provocò una strage, uccidendo oltre 250 persone radunate nel cimitero di Santa Cruz, a Dili, sotto le videocamere dei reporter stranieri. Il primo, vero fattore di svolta si ebbe nel 1996, quando il premio Nobel per la Pace fu assegnato al vescovo di Dili, monsignor Ximenes Belo, e a José Ramos-Horta, giornalista, scrittore (autore di L’infinita saga di Timor Est), tra i fondatori del FRETILIN e suo rappresentante alle Nazioni Unite. Oggi presidente della repubblica, durante l’occupazione indonesiana Ramos-Horta ha perduto tre fratelli e una sorella. Il passo successivo fu la caduta del presidente Suharto, dopo trent’anni di potere assoluto. Abbandonato dagli ex amici americani dopo la caduta del muro di Berlino, “l’amico di Jakarta” fu rimosso e, nel 1998, gli successe il capo provvisorio di governo, Jusuf Habibie. Questi, sotto la pressione internazionale, risvegliatasi dal coma grazie al Nobel, dovette fare qualche concessione agli indipendentisti (essendo molto debole in patria, Habibie tentò così di guadagnare un po’ di immagine all’estero): ritirò una parte simbolica dell’esercito indonesiano dall’isola e concesse, convinto della vittoria dei filo-indonesiani, il referendum per l’autonomia. La consultazione popolare si tenne nell’estate del 1999 sotto lo sguardo attento degli osservatori internazionali dell’ONU, e il risultato fu clamoroso: il 78,5% dei votanti scelse l’indipendenza. Al voto partecipò il 98,6% degli aventi diritto, tra cui i guerriglieri scesi dalle montagne per l’occasione: secoli di colonia portoghese, uniti ai venticinque anni di massacri da parte dell’Indonesia, avevano rafforzato la diversità e l’orgoglio di questa enclave cattolica circondata da un arcipelago islamico. Le giornate che seguirono, durante il cosiddetto ‘Setembro Negro’, furono contrassegnate dalla violenza più dura: le milizie che appoggiavano l’Indonesia incendiarono e distrussero tutto ciò su cui riuscirono a mettere le mani, radendo al suolo i centri principali (Dili e Baucau) e lasciando numerosi senzatetto. Le chiese, in particolare, furono prese di mira, facendo erroneamente pensare ad alcuni osservatori occidentali che la questione di Timor Est fosse solo l’ennesima crociata che opponeva musulmani a cristiani (dei circa 800.000 abitanti di Timor Est l’85% è cattolico), anziché una lotta per il denaro e il potere. In tre settimane i soldati indonesiani e le milizie che li appoggiavano uccisero circa duemila timoresi dell’Est.Il governo australiano in seguito fu accusato da due ufficiali dell’intelligence Aussie di aver volutamente ignorato - per non compromettere le relazioni diplomatiche con Jakarta - rapporti dei suoi servizi segreti militari che avrebbero potuto prevenire il massacro. La questione di Timor, però, grazie alla velocità dei media occidentali e di internet, alla fine degli anni Novanta divenne di dominio pubblico e globale, fino ad assumere, in certi casi, una sfumatura di “moda” di impegno civile dell’Occidente. A fronte dei massacri, trasmessi quotidianamente alle televisioni di mezzo mondo, urgeva un intervento dall’esterno. La situazione riprese una parvenza di controllo solo con l’arrivo di settemila soldati inviati dalla comunità internazionale: australiani innanzitutto, ma anche gurkha dell’esercito britannico, francesi, tailandesi, portoghesi, brasiliani, keniani e, in seguito, 250 italiani (200 parà della Folgore e 50 carabinieri). Grazie a questi soldati circa 170.000 profughi timoresi riuscirono a rientrare in patria. I soldati rimasero a Timor Est per cinque mesi, quindi vennero sostituiti da circa 9000 uomini della forza di pace delle Nazioni Unite. Sempre nel 1999, sotto la pressione internazionale, gli indonesiani dovettero liberare Xanana Gusmão, in quel periodo considerato un vero e proprio eroe nazionale da parte dei timoresi orientali - le magliette con la sua effigie, la barba e il basco alla Che Guevara divennero un po’ la divisa di chi stava a Est.
L’ultimo decennio ha visto una situazione ufficialmente sotto il controllo delle Nazioni Unite che, dopo aver istituito un’autorità transitoria (UNTATET), portò alle elezioni del 30 giugno 2001. Nella pratica, però, gli attacchi continuarono per un certo periodo. Soprattutto quelli del TNI, gli elementi più radicali e nazionalisti delle forze armate indonesiane, e quelli dell’Aitarak, il braccio armato degli unionisti, capeggiati da Eurico Gutierres. Il suo gruppo è stato ritenuto responsabile dell’attacco a una base delle Nazioni Unite di Atambua, un villaggio di confine, nel settembre del 2000: in quell’occasione tre funzionari dell’ONU che si occupavano del rimpatrio dei profughi furono uccisi a colpi di machete. In aprile dello stesso anno, inoltre, Guterres aveva assalito, assieme a un centinaio di uomini armati, la casa di uno dei capi indipendentisti, Manuel Carrascalão, uccidendone il figlio e altre undici persone. Guterres, considerato un eroe dell’Indonesia unita, è stato arrestato solo dopo le pressioni australiane e americane sul governo di Jakarta, e processato (per furto di armi, la cui pena massima prevista è di sei anni), vestito in uniforme dell’esercito indonesiano, cui non è mai appartenuto, con un rito-farsa durante il quale gli stessi giudici si sono recati a stringerli la mano.
Nel 2002 la Repubblica di Timor Leste (Timor Loro Sae - ‘Timor del Sole Nascente’, com’è chiamata dalla gente locale) ha raggiunto la piena indipendenza, divenendo il primo ‘nuovo’ Paese del terzo millennio. Ma la nazione, in pratica, ha dovuto rinascere da zero, in totale dipendenza dall’aiuto internazionale. Si è calcolato che il 90% del territorio nazionale sia stato distrutto o danneggiato. Istruzione (l’analfabetismo è al 70%), legalità, lavoro, sfruttamento delle risorse: tutto da costruire. Ingenti aiuti sono arrivati dal Portogallo, dal Giappone e dall’Australia, ma non sempre per puro spirito di solidarietà. La Telecom portoghese, per esempio, mantiene il monopolio delle comunicazioni on-line (vendute a carissimo prezzo), chiave indispensabile per lo sviluppo delle nuove generazioni, e la lunga mano dell’Australia non ignora le risorse naturali, petrolio e gas naturale, di cui l’isola è ricca. Nel 2008 il presidente Ramos-Horta e il primo ministro Gusmão sono scampati a un attentato per mano di membri rinnegati dell’esercito. L’economia stenta a decollare: nel porto di Dili arrivano barche da carico piene di merci importate e ripartono a chiglie vuote (zero esportazioni). Le UN dovrebbero lasciare il Paese nel 2011, dopo aver aiutato i timoresi a costruire le fondamenta di una nuova nazione, a partire dalle istituzioni. La corruzione, però, lubrificata dai grossi capitali che giungono dall’estero sotto forma di aiuti, dilaga, e si dice che Ramos-Horta e Gusmão, padri storici di Timor Leste, siano gli unici membri non corrotti del governo…

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